La possibilità di una sensibilità delle piante è spesso utilizzata come pretesto per rifiutare le argomentazioni della liberazione animale; tuttavia, vale la pena di analizzare la questione più a fondo.
Quando affronto il tema del dominio che gli umani esercitano sugli altri animali, e in particolar modo il tema della carne, molte persone si mettono immediatamente a parlare delle piante in una modalità aggressiva: secondo loro, le piante pensano, sono coscienti, gridano, soffrono o provano piacere. In genere, queste persone sono in perfetta mala fede e se fingono di interessarsi alla sorte delle piante lo fanno solo per poter meglio continuare a disprezzare quella degli animali; cosicché, dopo aver messo in evidenza il fatto che rifiutano il confronto, che è quello il loro scopo, che non vogliono sentir parlare di prendere sul serio gli interessi degli animali, smetto di discutere in simili condizioni. Ma posso anche divertirmi a stare al loro gioco: se le piante fossero sensibili, l’argomento contro l’alimentazione carnea sarebbe rinforzato – almeno a livello logico. Infatti, dato che per produrre 1 gr di proteine di origine animale ci vogliono da 5 a 10 gr di proteine di origine vegetale, smettere di mangiare animali, pur continuando a mangiare piante, ridurrebbe la somma della sofferenza imposta a queste ultime di un fattore da 5 a 10; ecco un bell’argomento... che però non scalfisce minimamente i miei interlocutori: essi ragionano in termini di tutto o niente, perché di fatto se ne infischiano totalmente di quella sofferenza che hanno la delicatezza di attribuire alle piante. Tuttavia, se essi si impegnassero ad alleviare la sofferenza umana solo nel caso in cui si aspettassero un risultato ideale, o anche solo comparabile a quello evocato qui sopra, non farebbero mai niente: non aiuterebbero né il Terzo Mondo, né la medicina, né il loro vicino... e neanche se stessi. Il che dà la misura – per contrasto – di tutto il disprezzo che hanno per gli esseri viventi sensibili che non appartengano all’Umanità.
Ma ci sono anche persone che pensano sinceramente che le piante soffrano o abbiano una coscienza, anche se tra di loro sono rare quelle che ne ricavano conseguenze pratiche. È a queste persone che mi rivolgo, poiché il problema sta loro a cuore in modo sincero.
Personalmente, non penso che le piante abbiano coscienza e che soffrano, che provino gioia e dolore. In realtà, questa non è una mia credenza, ovvero una verità rivelata alla quale mi aggrappo perché mi piace - anche se è chiaro che è più piacevole per me pensare che le piante non partecipino al vasto concerto della sofferenza.
La penso perché è l’ipotesi più verosimile che sia in accordo (in armonia) con i fatti di cui dispongo e con la comprensione del mondo che ho, almeno in parte, costruito su questi fatti.
La prima ragione, già considerevole, è che non si conosce alcuna specie vegetale che disponga di un sistema nervoso, il che non sorprende, dal momento che la funzione di tale sistema è di azionare i muscoli ed allo stesso tempo – appunto perché c’è motricità – di trasportare l’informazione raccolta da diversi ricettori. Mentre gli organismi animali si sono evoluti verso una centralizzazione funzionale considerevole nel corso della storia naturale, le piante non hanno fatto altrettanto. Questa assenza di centralizzazione, questa autonomia di ogni parte nei confronti delle altre, che consente ad esempio la pratica della talea, fa sì che sia molto difficile applicare la nozione di individualità ai vegetali; se le piante soffrissero, ci si dovrebbe domandare chi è che soffre: ogni foglia...? Bisogna considerare una pianta di fragole come una sola unità sensibile oppure come molteplici unità? E in questo caso, a partire da quale momento del loro sviluppo? Soffrirebbero insieme, o singolarmente, o solo le radici? E la coscienza? Ecco delle domande concrete che emergono nel momento in cui si evoca l’ipotesi di una sensibilità o di una coscienza, ma che nessuno si pone mai. Ma in ogni caso, anche se si può dire che c’è trasferimento di informazioni, nella misura in cui alcune molecole si spostano, interagiscono in diversi luoghi con dei recettori della pianta e creano in questo modo degli effetti a catena, ciò non autorizza affatto a stabilire che una coscienza le riceva, le centralizzi e le «tratti».
Credo che molte persone abbiano difficoltà ad immaginare la vita «vegetativa» delle piante perché le nostre esperienze di animali ci fanno associare la coscienza e la sensibilità alla nozione di vita. Tuttavia, negli animali le attività vitali coscienti sono legate alla motricità, diversamente ad esempio dalla respirazione o dalla digestione; gli animali in coma, con encefalogramma piatto o decerebrati, vivono, e questo prova che una vita non cosciente è possibile per un essere che non deve muoversi per sopravvivere. Difatti, perché le radici affondino nella terra o le foglie si volgano verso il sole non c’è bisogno di più coscienza di quanta ne servirebbe per svilupparsi o per invecchiare.
C’è poi un altro argomento che mi sembra molto forte: il fatto che non si vede quale utilità evolutiva la sensibilità e la coscienza rappresenterebbero per le piante. Nel regno animale, esse giocano un ruolo considerevole nella vita e nella sopravvivenza degli individui, così come nella riproduzione. L’ansia, la paura, il dolore, malgrado eventuali effetti indesiderati (per esempio, il panico può condurre dritti nelle fauci del lupo), spingono l’animale ad una reazione: di panico, di fuga, di difesa, di attacco... Esse sono una carta vincente nella misura in cui l’essere interessato è mobile, può spostarsi, sottrarsi ad un pericolo, curarsi, e in generale cessano di essere utili laddove non è più il caso: un animale ferito che si mette in salvo continua tuttavia a provare dolore a causa della sua ferita, a volte completamente invano. E, come mostra l’esistenza di individui che hanno un sistema nervoso deficiente e non percepiscono il dolore o che sono in stato comatoso o decerebrati, le ossa si rinsaldano, le ferite cicatrizzano, il sangue si coagula, il sistema immunitario agisce in tutta indipendenza dalla percezione del dolore: essa non offre alcuna utilità a questo livello, anzi è tutto il contrario, perché negli animali la sensazione di dolore crea uno stress che, se non può scaricarsi in una reazione cosciente si rivolta conto l’organismo. Ora, le piante non hanno la mobilità che ha la maggior parte degli animali [1] oppure, quando questa mobilità esiste, resta insufficiente per neutralizzare un’aggressione. Perché allora avrebbero acquisito una coscienza nel corso della storia naturale? E se malgrado tutto ne avessero acquisita una, perché l’avrebbero conservata?
Così, poiché le piante non possiedono nulla che somigli minimamente ad un sistema nervoso, poiché non siamo a conoscenza di processi nelle piante che possano essere assimilati agli influssi nervosi (che trasformano l’informazione a grande velocità), poiché una coscienza di, o una sensibilità a, dolore e piacere verosimilmente non servirebbe loro in alcun modo, e – possiamo immaginarlo – nuocerebbe forse alla loro sopravvivenza, penso che esse sono «insensibili» e «mute», viventi ma tuttavia «inanimate». Non solo questa è l’ipotesi più semplice e più verosimile, ma in più l’ipotesi opposta suscita problemi considerevoli che, a tutt’oggi, non trovano l’ombra di una risposta.
Mi si obietterà che cercare nelle piante un sistema nervoso simile al nostro o una coscienza organizzata come la nostra è ingenuo antropomorfismo, che non è strano che non si trovi nulla del genere e che questo non implica l’inesistenza di una coscienza «organizzata in modo diverso». Ma cosa potrebbe essere una tale «coscienza» è completamente indefinito, e non si sa in cosa essa resterebbe una coscienza; ma questo sembra dar fastidio a pochi. Di fatto, penso che sia piuttosto la nostra volontà di attribuire una coscienza e una sensibilità al regno vegetale a dar prova del nostro antropomorfismo. Esistono numerosi libri intitolati L’intelligenza delle piante o La vita segreta delle piante [2] che rigurgitano di aneddoti sulle piante sensibili alle intenzioni che si hanno nei loro confronti – e che esse capiscono -, sensibili all’affetto che si prova per loro, alla musica classica, ai dispiaceri che colpiscono gli umani che le circondano, capaci di gridare, di fare il broncio, di contare... In nessuno dei libri che ho letto o sfogliato ho trovato riferimenti precisi alle esperienze menzionate, che mi avrebbero permesso di risalire alle fonti primarie e a maggior ragione di riprodurle. Questo è in sé sospetto; in realtà, la sicurezza con cui è riportato questo o quell’esperimento rappresenta valore di prova [3]. Il tono vuole essere immancabilmente rigoroso (quantunque umoristico e leggero) e lo stile e i termini si vogliono scientifici, ma le conclusioni che ne sono tratte c’entrano come i cavoli a merenda, con ragionamenti non convincenti o addirittura illogici e non plausibili. Questi testi cercano di darsi un «look» argomentativo, ma fanno puramente e semplicemente appello non solo alla credulità ma anche alla complicità attiva, alla volontà di credere del lettore. I risultati degli esperimenti descritti divengono immediatamente non credibili se ci si attarda un po’ sui dettagli e si cerca di definire ciò che implicano nella realtà; così, ci viene detto ad esempio che le piante fioriscono ascoltando musica classica (niente rock, non è il loro genere...). Ora, soltanto tra gli umani il modo in cui è recepito un tipo di musica varia considerevolmente da cultura a cultura, ed anche secondo le classi sociali all’interno di una stessa cultura. Immaginiamo di poter viaggiare nel tempo, immaginiamo l’indignazione e l’incomprensione se si facesse ascoltare il blues, il jazz o il rock alla gente del XIX secolo! Apprezzare una musica, trovarla armoniosa non è per niente spontaneo ma fa appello a un tipo di cultura musicale. E le piante apprezzerebbero al primo ascolto Bach o Brahms, e non Berloz o Haydn! Suvvia! Inoltre, uno strumento musicale ben accordato lo è solo nella fascia di onde sonore che riusciamo a percepire. (Dicono che i cani odiano alcuni strumenti che a noi piacciono: scommettiamo allora che, quanto ad ultrasuoni, questi strumenti regalano loro una bella cacofonia!) E quindi, non solo le piante avrebbero come noi un senso dell’estetica musicale – e addirittura lo stesso nostro! - ma sarebbero sensibili esclusivamente alle stesse lunghezze d’onda a cui siamo sensibili noi – e tutte le specie vegetali indistintamente! Ecco un bell’esempio di antropomorfismo.
Sarebbe fastidioso mettersi ad esaminare e neutralizzare in questo modo i diversi pretesi esperimenti riportati in questo genere di libri, e di cui tutti hanno più o meno sentito parlare. Secondo me, di fronte a tali esempi, ci sono pochi dubbi che gli autori di questi libri o articoli sono disonesti e che i lettori che ci credono sono compiacenti. È per questo che mi interessa ricevere relazioni di esperimenti per poterli verificare e controllare. Difatti, per chi vuole capire un po’ il mondo in cui vive, il fatto di poter accordare solo una mediocre fiducia alle concezioni scientifiche in voga [4] non implica purtroppo che le prospettive che pretendono di essere critiche nei confornti quelle non siano ancora peggiori. Attualmente, malgrado il fatto che la realtà presupponga così poco (e anzi contraddica tanto) l’ipotesi che le piante abbiano una sensibilità ed una coscienza, questa tesi trova un numero sempre più consistente di sostenitori: sostenitori per principio, si potrebbe dire, che vi credono perché hanno voglia di credervi. Difatti, questi libri di qualità assai scadente (per non dire truffe...) di cui ho parlato possono soddisfare il lettore solo se questi è convinto in partenza, o almeno già molto favorevole, ossia solo se egli cerca giusto la conferma delle sue aspettative. Con ogni evidenza, ci piace l’idea che le piante siano coscienti, sensibili, anche se non ci soffermiamo quasi per nulla a cercare di sapere nel dettaglio cosa potrebbe realmente essere questa coscienza o questa sensibilità. Per giunta, questa idea esercita su di noi un vero fascino, al punto da incitarci ad accantonare una parte delle nostre conoscenze e del nostro senso critico. Per esempio, ci si pone molto meno la questione di sapere se gli invertebrati (insetti, molluschi...) sono sensibili, o se hanno una «coscienza»; eppure la risposta è lungi dall’essere evidente e dunque è assolutamente legittimo porsi la domanda. Ma questo problema suscita molto meno entusiasmo ed interesse, non sembra rispondere ad alcuna aspirazione degli umani e non muove le folle; diciamo pure che tutti se ne infischiano. Il caso delle piante è diverso, probabilmente perché ci sono infinitamente più estranee di quanto non lo siano i piccoli animali ed è questa estraneità che ci preoccupa.
Ritengo infatti che dietro questa volontà così diffusa di credere che le piante abbiano una coscienza o una sensibilità si nasconda la volontà di concepire un mondo in cui tutto è interconnesso dalla sensibilità, in cui tutto ha un’esistenza sensibile, una coscienza, tutto ha potenzialmente un discorso, un significato, una volontà: un mondo da cui il silenzio è bandito, un mondo il cui silenzio è bandito. Nello stesso modo, sono numerosi quelli che pensano che le pietre o gli oggetti siano sensibili al loro ambiente, a quello che succede, alla sofferenza degli altri, eventualmente, o alle loro emozioni: secondo degli schemi molto umani, evidentemente! Volontà di un mondo in cui i nostri atti, i nostri stati d’animo, le nostre emozioni hanno una ripercussione sull’insieme della realtà, dove non si è mai soli, dove ciò che si fa o si sente prende importanza dal fatto di ripercuotersi sulla totalità della realtà esteriore, di essere registrato dalla realtà. Come se un altro (Dio, o la Natura attraverso gli elementi naturali) restasse sempre in contatto con noi, anche quando siamo soli: egli fa attenzione a noi, in ogni caso sa della nostra presenza, non siamo soli al mondo e non siamo un «niente» perché esistiamo in ogni circostanza per un altro!
In realtà, questa intelligenza o esistenza sensibile delle piante o delle pietre (o delle montagne o della Terra...) non è concepita che in un rapporto d’utilità per gli umani: esse costituiscono le nostre memorie eterne, i nostri testimoni che, guardandoci vivere ci rinviano alla nostra vita e al suo senso. Attribuire loro una conscienza o una sensibilità permette di allontanare da noi l’idea di una Natura che ci sarebbe totalmente estranea, l’idea per esempio di vite che non avrebbero né interessi né scopi. Si accorda loro una sensibilità per rompere il silenzio e sostituirlo con un mormorìo immaginario, l’eterno brusìo della vita e delle cose; ma per la quasi totalità della gente, ciò non cambia un bel niente nella relazione pratica che si può avere con la pianta o la pietra: esse verranno strappate o frantumate senza alcuna preoccupazione nei loro confronti e si continuerà a parlare anche più di prima di natura armoniosa e buona. Esse sono viste esclusivamente come recettori, concepite a notro uso, come polo relativo interamente subordinato all’unico polo che gli umani vogliono considerare infine come realmente esistente o importante: l’Umanità.
[1] Infatti ci sono anche animali quasi immobili, come le conchiglie, di cui non si sa affatto se provano dolore e piacere.
[2] Peter Tompkins et Christopher Bird, La Vie secrète des plantes, Robert Laffont, 1975; Martin Monestier, De la musique et des secrets pour enchanter vos plantes, Tchou ; Robert Frédérick, L’Intelligence des plantes, Arista, 1990 ; Jean-Paul Gibiat, «Avez-vous la main verte?», dans Ça m’intéresse n°17, juillet 1982
[3] Cf. Henri Broch, Le Paranormal:ses documents, ses hommes, ses méthodes, Seuil, 1989. In questo libro estremamente critico, l’autore cita un preteso esperimento relativo alla sensibilità delle piante che si era rivelato una bufala e dà riferimenti a lavori scientifici in questo campo che hanno avuto solo esiti negativi. Spiegando anche cosa sono in realtà le «fotografie Kirlian», scalza i fondamenti della maggior parte delle altre pretese prove che di solito sono avanzate.
[4] Infatti non ho ancora incontrato un solo studio francese su una eventuale sensibilità alla sofferenza degli insetti, degli Aracnidi, degli Artropodi, dei molluschi... Nell’Encyclopaedia Universalis, per esempio, il lungo articolo che tratta degli Imenotteri (api, formiche...) non menziona mai l’esistenza di un sistema nervoso. Incredibile! Si può pretendere di studiare o conoscere la vita o il comportamento di un essere senza neanche porsi la questione di sapere se soffre o no e cosa è suscettibile di farlo soffrire? Ebbene, gli scienziati, soprattutto francesi, sembrano pensare di sì! Non si curano di questo argomento più di quanto faccia l’uomo della strada, il che è assolutamente sintomatico del conformismo e della ristrettezza delle loro richerche. La sofferenza animale è tabù anche per gli scienziati.