Il «rispetto» non è forse una perfetta maschera dell’oppressione e del dominio?
Mi ricordo ancora bene di una discussione avuta parecchi anni fa, che mi aveva parecchio colpito perché avevo avuto la brutale percezione di ciò che significa veramente l’idea di «rispetto».
Avevo discusso a lungo con un amico ecologista riguardo a quanto potesse esser giusto mangiare carne, e poco a poco, in seguito a numerose argomentazioni e contro-argomentazioni, vedevo avvicinarsi il momento in cui lui avrebbe dovuto logicamente convenire che mangiare degli animali era un’ingiustizia nei loro confronti, e che questa ingiustizia non era né più né meno importante nel caso si fosse trattato di uomini. Ma alla fine, la mia delusione fu grande, perché lui pose fine al dibattimento dichiarando che ciò che dicevo non era falso, ma non comportava necessariamente il rifiuto della consumazione di carne: invece, aggiunse, è importante rivedere il nostro relazionarci agli animali e non trattarli più come della semplice materia. L’importante, concluse, è mantenere o ristabilire un rispetto dell’animale. Tale rispetto per lui, ahimé, non comportava l’esclusione dell’alimentazione carnivora, né tantomeno della carneficina che ne consegue, e mi diceva peraltro di ammirare e voler ritrovare il grande rispetto che provavano gli indiani dell’America per gli animali che cacciavano, in cui questi vedevano dei loro pari di cui si servivano con ripugnanza e con molto dispiacere, e che uccidevano solamente dopo avere chiesto loro più volte perdono ed essersi palesemente scusati del male loro inflitto.
In effetti, già all’epoca questa nozione di rispetto mi era stata più volte argomentata in circostanze simili, e di recente ho avuto occasione di sentirla ancora. Poiché questo argomento ritorna spesso nelle conversazioni, ritengo utile spendere due parole a riguardo. Questa nozione sembra rivestire un grande valore agli occhi di chi la utilizza, perché sembra che possa chiudere agevolmente e senza replica una divergenza o un conflitto, e far cessare il dibattito riconciliando le posizioni avverse. Ma per me è inaccettabile: si tratta, infatti, di un gioco delle tre carte che mira proprio ad aggirare la questione, e che in tal senso assomiglia soprattutto ad una prestidigitazione verbale.
Quel rispetto, di cui si fa così grande uso e che si invoca così facilmente, è puramente astratto, perché concerne soltanto la disposizione mentale del dominante, il suo atteggiamento psicologico, e in pratica non comporta quasi nessuna conseguenza, alcun cambiamento nelle azioni. Nel contesto della discussione di cui parlavo non si trattava che di un modo in più per negare gli interessi degli animali, focalizzando l’attenzione e l’importanza non sugli effetti concreti di una relazione o di un’azione (quale era il mio proposito) ma sullo stato d’animo che l’accompagna. È proprio il rifiuto di dare importanza ad altri aspetti che non alla vita del dominante, rimandando le tribolazioni del dominato a differenti casi di significato (positivi o negativi) per il dominante. Ciò che contraddistingue alla fine l’evocazione di questo rispetto è proprio il rifiuto di considerare gli interessi dei dominati. E questo negando del tutto la dominazione, quella che esercitiamo, per valorizzare al contrario noi stessi tramite l’affermazione del nostro eccellente stato d’animo, della nostra buona volontà («non abbiamo cattive intenzioni, al contrario, siamo in buona fede: siamo ri-spet-to-si»).
Da bambino, la parola «rispetto» faceva parte di quelle parole misteriose delle quali non riuscivo ad individuare precisamente il senso, delle quali non sapevo sbrogliare la matassa dei molteplici significati, che mi apparivano contraddittori sotto ogni aspetto. È stato solamente molto più tardi, quando ho potuto stabilire un rapporto netto tra «rispettare» e «portare rispetto», che le cose si sono chiarite.
Così, «rispettare i propri genitori» significa essenzialmente: «temerli» e, nella pratica, comportarsi in modo da non doverli temere. Ma anche non smascherare l’impostura della loro «autorità», non metterla in discussione.
In un altro campo delle relazioni inter-umane, un magnifico proverbio russo esprime il concetto molto bene e con candore: «È possibile che una moglie ami il marito che non la picchia mai, ma non è possibile che lo rispetti [1]».
Ed infatti, quando si parla di rispetto lo si fa quasi sempre in seno a relazioni di conflitto (tra eguali) o, più spesso ancora, in seno a relazioni di dominazione.
Esempio in caso di conflitto: «Io rispetto le tue idee, tu rispetta le mie!», o ancora: «Io rispetto te, tu rispetta me allora!». Non è nient’altro che un accordo «niente per niente» basato su reciproche minacce: «Io non attacco te, tu non attacchi me». Oh, che bella, encomiabile relazione quella dove ogni discussione viene evitata in questo modo! Quel rispetto lì rievoca i rapporti di forza come lo stato di non-belligeranza ottenuto con la corsa agli armamenti nucleari, e certamente non scaturisce da una reale considerazione. Si tratta sempre di marcare un territorio al quale l’altro non si avvicinerà, di individuare una no man’s land, di tenere l’altro a «rispettosa distanza».
Parlando di una relazione di amicizia, certamente non sarei mai tentato di definirla rispettosa, ma semmai, per esempio, come relazione di stima. E così per ogni relazione realmente egualitaria ed amichevole, per le quali la nozione di rispetto sembra, in effetti, fuori luogo. Perché non ho alcuna distanza da mantenere, e neanche niente da mascherare. D’altronde non si smette di citare (e non di evocare, bensì di invocare!) il rispetto nelle relazioni genitori-figli, uomo-animale, uomo-donna, così come nelle relazioni tra diverse comunità, ecc. Personalmente, quando adesso sento parlare di rispetto, o allo stesso modo di tolleranza (un’altra idea generalmente dello stesso stampo), mi viene la nausea.
«Io sono tollerante, rispetto gli omosessuali (o gli arabi, ecc.), loro possono fare ciò che vogliono, finché non m’infastidiscono!». Finché si tengono a distanza e restano piccoli piccoli: che stiano in riga e restino al posto loro. Non per niente in Olanda si parla molto nei luoghi contestatari di «tolleranza repressiva». In un’ottica di dominazione tolleranza o rispetto significano nel migliore (?) dei casi indifferenza, quando non sono in realtà una stigmatizzazione, quando non si punta il dito contro. In un’ottica egualitaria sono parole che non hanno più ragion d’essere, o, meglio, non hanno più senso.
Ciò è illustrato benissimo dall’evoluzione della galanteria in questi ultimi decenni; è tipicamente una di queste forme di rispetto che, in un’ottica generale di dominazione, obbliga al minimo indispensabile: la galanteria esige che un uomo lasci passare le donne davanti a sé, che ceda il suo posto sull’autobus alle donne incinte, ma non impone per niente che passi lo straccio sul pavimento o badi ai marmocchi, che faccia la spesa o accetti che la sua metà lavori (per fare solamente qualche esempio). La galanteria esige delle testimonianze di considerazione che costano poco, ma che fruttano molto: sono testimonianze pubbliche e largamente pubblicizzate, che fan sì che chiunque garantisca che Tal dei Tali tratta bene le donne e le tiene in alta considerazione. Essere galante significa prendere due piccioni con una fava: si mantiene la confusione nelle dominate («ma no, lui non mi disprezza mica, lui mi rispetta») e si rinforza il dominante nel suo bel ruolo. Ora, a partire dal momento in cui un numero sufficiente di donne si sono pubblicamente opposte, dove la dominazione è stata detta, la galanteria ha perso la sua funzione di maschera ed è progressivamente scomparsa: non ha più molti motivi di esistere – senza nemmeno, del resto, che l’uguaglianza uomo-donna si sia realmente realizzata: oggi si parte dal postulato, implicito e comodo, che le donne avrebbero oramai le stesse possibilità degli uomini di realizzare liberamente la loro vita, e che la società attuale proporrebbe loro un’opportunità di scelte ampia e di facile accesso come per gli uomini, ma queste possibilità, molto spesso, sono soltanto formali.
Si potrebbe fare lo stesso discorso per ciò che riguarda la funzione dello «spirito cavalleresco», per gli amanti dei vecchi tempi (la «difesa della vedova e dell’orfano» da parte di quelli stessi che li rendevano vedove od orfani!), o quello del paternalismo nelle imprese o nelle Colonie; il declino del paternalismo, del resto, è dovuto non alla scomparsa dei rapporti inegualitari – in tal caso si saprebbe! – ma piuttosto alla loro trasformazione: il neo-colonialismo ha sostituito il colonialismo di papà, e, nelle imprese, la Modernità ha instaurato nuove maschere, di buona efficacia, che sono la partecipazione e la concertazione sociale.
Del resto, anche nel contesto del neo-colonialismo e della miseria cronica, che preserva le «necessità» economiche e geopolitiche dei paesi dominanti nel resto del mondo, gli aiuti umanitari (o bellico-umanitari), oggi fiorenti grazie al grande supporto mediatico, dovrebbero apparire per ciò che realmente sono: galanteria, pura galanteria. Affinché smettano di esserlo, non è la carità che ci vuole, ma una reale condivisione delle ricchezze.
Il rispetto entra in scena in diversi modi, e riveste delle funzioni evidentemente diverse a seconda che si tratti di ciò che deve provare il dominato per suo dominante, o di quello che quest’ultimo dice di provare nei confronti del suo dominato. Il primo, costretto ma generalmente ritenuto libero e naturale, mira a tenere lontano il dominante, nella sua falsità e superiorità, a non smascherarlo, a non spogliarlo del suo prestigio: rispettare il re è evitare di vedere che il re è nudo. Rispettare la legge, rispettare la democrazia, è legittimarle. Non dissacrare l’idolo, il feticcio, non avvicinarsi al suo piedistallo per non farsene un’idea troppo precisa che romperebbe l’incanto. Il rispetto del dominato per ciò che lo domina, e che lui ritiene superiore, non è fondamentalmente diverso da un rispetto religioso. Può anche essere, dopo un po’ di contorsioni mentali, che si dia per amore, libertà o razionalità; alla base, resta fondato sul timore [2]. Ma in ogni caso è sempre un rispetto che si traduce in atti di deferenza e sottomissione. Per un dominato, rispettare è sottomettersi.
Il rispetto che dice provare il dominante, al contrario, ha come caratteristica principale il non tradursi in alcun atto (o al limite in pochissimi): esso è detto, ed è soltanto questo. Non vuole intervenire nella realtà, concretizzarsi, ma mira a trasfigurare la realtà nell’immaginario per non doverla rimettere in causa. Esso ha anche per funzione il mascherare i rapporti di dominazione, talvolta consciamente, ma spesso inconsciamente (ma non è questo il vero problema). L’invocazione del rispetto è allora un’invocazione magica che fa rientrare sulla retta via una realtà che altrimenti apparirebbe inquietante e malsana.
Il rispetto: maschera, legittimazione, tenuta a distanza.
Questo spiega benissimo perché quando si parla di mangiare animali tante persone, spontaneamente, trovano il modo di inserire nella conversazione il fatto che loro si sentano vicine a questa sensibilità, a quel rispetto che avevano gli indiani d’America, che, quando bastonavano, sventravano, intrappolavano, pescavano, ecc. un animale gli andavano subito vicino a chiedergli perdono. In tutta franchezza, io non so perché gli indiani si dedicassero a questo genere di ginnastica mentale [3], ma vedo benissimo l’interesse che ha la gente in Occidente a rivendicarlo tanto spesso: un tale rispetto non obbliga rigorosamente a niente, perché è solo un atteggiamento mentale, e in particolare non cambia niente per l’animale interessato; al contrario, permette all’oppressore di preservare la sua buona fede, ovvero di negare la dominazione (perché non c’è cattiva intenzione), di preservare un’immagine valorizzata di se stesso. Questo rispetto resta platonico, e permette di tutelare la sostanza: il fatto di uccidere l’animale.
Un altro esempio ancora viene dalla Dichiarazione Universale dei Diritti degli Animali [4], a firma di un’associazione della difesa animale: la Lega francese per i Diritti degli animali (LFDA). Questa dichiarazione, che gode di una certa fama tra i media, non mira a nient’altro, sotto la parvenza di promuovere alcuni diritti degli animali, che a legittimare nella pratica la consumazione di carne, la pesca (industriale e sportiva), la caccia ecologica, e la vivisezione «quando è necessaria». Mira cioè a fondare nel diritto l’essenza della attuale dominazione degli uomini sugli animali, condannandone unicamente gli «abusi» (corride, zoo, circhi, caccia sportiva, maltrattamenti su animali domestici, ecc.). Ora, è significativo che non abbia mai letto alcun altro testo dove le esortazioni al rispetto ritornino con tanta insistenza:
- ogni vita animale ha diritto al rispetto
- l’animale morto deve essere trattato con decoro
- gli spettacoli […] devono rispettare anche la loro dignità
- ecc.
Si capisce bene che l’animale morto non può che essere totalmente indifferente a tutta questa cortesia, esattamente come l’animale ancora vivente: esso può ovviamente trovare un vantaggio nel non essere più maltrattato, ma è probabile che se ne infischi completamente del fatto che si rispetti o no la sua dignità. Queste nozioni di rispetto, di dignità, di decenza hanno evidentemente un senso soprattutto per gli umani. E dunque, questo rispetto gli autori della Dichiarazione lo rivolgono a loro stessi e agli altri umani, ed è proprio la loro dignità di uomini-padroni-degli-animali che hanno il dovere di rendere così onorabile ai loro stessi occhi, facendo delle dichiarazioni, delle declamazioni e delle proclamazioni di buone intenzioni davanti all’Animale, il quale, senza chiedere più di tanto, preferirebbe piuttosto dei miglioramenti più concreti della propria sorte.
Tra l’altro, il virtuosismo di questa associazione (la LFDA) nell’arte di rispettare ogni cosa che intende in realtà tenere a distanza e non tutelare, lo dimostra ancora, tra altri, il seguente estratto:
Per quanto concerne l’utilizzo a fini alimentari degli animali destinati alla macelleria o alla salumeria, bisognerebbe essere un vegetariano particolarmente intollerante per opporre, a nome suo e di altri, una condanna ed un rifiuto totale e definitivo. La scelta di un regime rigorosamente vegetariano risponde a delle motivazioni personali che scaturiscono dalla libertà individuale, che si tratti di ragioni dietetiche ritenute valide dagli interessati, o di ragioni basate su convinzioni ideologiche profonde e rispettabili. Tuttavia, è il caso di fare due osservazioni: innanzitutto, la Storia ci fornisce parecchi esempi di feroci vegetariani che si comportarono all’epoca da tiranni sanguinari, che non rispettarono né la vita umana né quella animale. D’altro canto, e questo è più importante, la privazione di alimentazione carnea comporterebbe evidentemente, per certi malati in particolare e per tutti gli Uomini in generale, dei rischi di carenze...» [5].
La parola «rispettabile» acquista qui tutto il suo senso nell’esser preceduta dal versetto obbligatorio sull’intolleranza, e di essere seguita dalla non meno obbligatoria (e oh! quanto delicata e pertinente) allusione a Hitler, senza contare la trasformazione verbosa in «privazione» di carne ciò che la LFDA non vuole percepire come un rifiuto di mangiare animali [6].
Come ho già detto, questo rispetto, che si ritiene di dover provare verso gli animali (del quale questi, però, non sanno che farsene finché non si assicurano loro delle condizioni di vita migliori e non si abolisce la loro oppressione), occorre però rivolgerlo a qualcuno… e a chi altri se non a colui che lo professa così dignitosamente, con una così grande apertura mentale ed una così nobile bontà di animo? Ed infatti ci si accorge presto che la maggior parte della gente, tra cui i militanti delle associazioni di difesa animale (SPA, Lega francese Contro la Vivisezione, ecc.), giudicano che uccidere o fare soffrire degli animali più di quanto non sia «necessario» agli umani (la definizione di questa necessità è elastica, sospettiamo…) è non soltanto «inutile», ma anche degradante, irrispettoso, indecente, ecc. per gli uomini: non solamente per gli individui che sono direttamente implicati in queste pratiche, ma per l’Umanità tutta, che così ne viene sminuita.
La difesa animale è tipicamente paternalista nelle sue rivendicazioni, e mira solo a ricondurre lo sfruttamento in forma addolcite, ma non meno criminali. Le grandi manifestazioni degli ultimi anni avevano per tema «Contro il martirio animale e per la dignità umana»: qui si tratta innanzitutto di ridare lustro ai fregi dell’umanità, che sarebbero stati opacizzati da usanze «di un’altra epoca», «barbare», «arcaiche», ecc. Tutto ciò ha ben poco a vedere con la questione del benessere degli animali, e spesso non è che un pretesto per emanare un rancore ed elevarsi a buon esempio per l’umanità. Ma, allo stesso tempo, si tratta di un chiaro tentativo di rispondere al crescente malcontento riguardo a ciò che facciamo agli animali: una risposta del genere però è solo polvere negli occhi, dichiarazioni di buona fede che mirano a bloccare ogni rimessa in discussione dei nostri privilegi. Piuttosto che voler cambiare una realtà che le mette a disagio, che è presumibilmente il fatto stesso che noi dominiamo gli animali, queste persone preferiscono demonizzare degli «abusi» (cos’è che distingue un abuso da una pratica considerata normale?) e dei capri espiatori (vivisettori, lobby, maniaci della corrida, amanti delle pellicce, ecc.), per poter più facilmente chiudere gli occhi sul resto e mantenere valide le loro pratiche.
Eh sì: in un contesto di dominazione, portare rispetto e avere considerazione sono due cose molto differenti, e in genere quanto più si rispetta qualcuno, tanto meno lo si vuole considerare.
Certamente, in contrasto con ciò che ho affermato sin qui, esistono sicuramente delle persone che parlano di rispetto dei dominati avendo davvero in mente l’abolizione della loro oppressione [7]. E allora sostengo che questa parola non è la più opportuna. È meglio, a mio avviso, lasciarne l’uso esclusivo a tutti coloro che vogliono continuare a consolidare i propri privilegi, o ancora, a tutti quelli, dominanti o dominati, che per tutte le buone ragioni che si possono immaginare aspirano al mantenimento dello status-quo: così si sa senza ambiguità di cosa si parla. Voler farla finita con le dominazioni, non è forse volere un mondo senza rispetto?
[1] Proverbio citato da Élise Boulding, «Les Femmes et la Violence sociale», nella raccolta La violence et ses causes , UNESCO, 1980, p. 255. Citato anche da Daniel Welzer-Lang, Les Hommes violents, Lierre et Coudrier, Paris 1991, p. 152.
[2] Come, in situazione di costrizione, si possa essere portati a credersi liberi, e quali siano le ulteriori conseguenze ideologiche e pratiche di tali situazioni per l’individuo che vi si trova immerso, è ciò di cui trattano due libri da psicologia sociale di J. L. Beauvois e R. Joule (Soumission et Idéologies, ed. P.U.F, 1981, e Petit Traité de manipulation à l’usage des honnêtes gens, Presses Universitaires de Grenoble, 1987). Questi autori forniscono delle chiavi importanti per comprendere certi aspetti del funzionamento della vita di società, come gli individui razionalizzino le loro azioni a posteriori ed integrino certi valori e non altri, e perché e come la nozione di libertà sia così importante in certi sistemi socio-politici (le democrazie).
[3] Ma ho una mia idea in proposito. Gli indiani ai quali si fa riferimento erano animisti, credevano nell’esistenza di un’anima in ogni pietra, ogni corso di acqua e ogni animale. Credevano alla sopravvivenza dell’anima degli animali come a quella degli uomini, e al loro potere sui viventi, e temevano dunque che gli spiriti di un animale maltrattato potessero tornare a vendicarsi: da qui dunque l’interesse a scusarsi e a dare una grande pubblicità alle proprie scuse, affinché lo spirito comprendesse bene che «non si aveva l’intenzione, ma bisognava farlo» (si ritrovano credenze e pratiche simili nella Grecia arcaica, dove un omicida smetteva di essere «macchiato» dal suo crimine nel momento in cui la sua vittima –umana- lo perdonava dall’aldilà). Se la mia ipotesi è corretta, il loro rispetto (come il rispetto filiale, il rispetto delle leggi…) è ispirato allora dal timore, cosa che non trovo assolutamente degna di stima, per due ragioni: 1) preferisco chiamare «gatto» un gatto, e «timore» un rispetto ispirato dal timore; 2) non trovo onorabile, né ragionevole, mettermi a rispettare, ammirare, venerare o servire qualcosa che temo: è questo l’atteggiamento abituale degli uomini verso ogni potere che è loro superiore, e davanti alla forza in generale. Penso veramente che si abbia solo da guadagnare, in comprensione e azione, a sostituire alla psico-logica del rispetto l’analisi logica dei rapporti con la forza.
Detto ciò, ci sarebbe molto da dire, in altro ambito, anche sull’attuale infatuazione indianista, che corrisponde molto spesso alla re-importazione di un modo di pensare religioso, l’animismo, per la trasversalità dell’interesse che suscita l’immagine del bell’indiano di figura maschile, che resiste all’invasore, ecc. (invece, ad esempio, si parla pochissimo delle culture relativamente vicine, in quanto alle loro concezioni del mondo, che sono potute esistere, ed esistono ancora, in Africa nera: è che gli africani non hanno, ahimé, un’immagine altrettanto bella, di marca e vicina agli Occidentali come gli Amerindi).
[4] Qui mi permetto di riprendere alcuni passaggi di un precedente articolo , perché mi sono già dedicato ad una critica dettagliata di questa Dichiarazione nel numero 2 (gennaio 1992) dei Cahiers antispécistes lyonnais. Ciò è, in effetti, una vera truffa. Non è un caso se uno dei suoi più eminenti propagandisti correnti, Giorgio Chapouthier, autore di parecchi libri sui diritti degli animali, oltre al fatto che ciò non gli impedisce di mangiare carne, è egli stesso vivisettore!
[5] Testo Santé et Violence sur l’homme et l’animal, di J. Proteau (un medico!) nell’opuscolo della LFDA, Violence et Droits de l’Animal, 1985. Il corsivo di «rispettabili» è mio.
[6] La dominazione si mostra sempre come godimento, finché nessuno sconforto morale o sensibile vi si insedia, e cerca di persuadersi che il rifiuto di partecipare è un segno del non saper vivere, una rinuncia incomprensibile o malaticcia, un ascetismo, un’incomprensione generale di quello è che la vita, la vera vita. I bravi viventi fanno buona carne, gli altri non hanno «colto» niente (il segreto della felicità non è forse essere in fase, in armonia, con l’Ordine del Mondo?), e rinunciano, tristi, malati, degenerati per non aver compreso che l’essenza della Vita, della Natura, è il regno della forza e dell’insensibilità nei confronti di ciò su cui si detiene il potere.
[7] È il caso, ad esempio, di Tom Regan che considera che «trattare degli individui con rispetto consiste nel non trattarli come mezzi di un fine», e che il diritto al rispetto è assoluto per tutti gli «oggetti di una vita», che non devono essere da parte loro essere strumentalizzati in alcun modo (vedere in particolare l’intervista di Tom Regan nei CAL n. 2, gennaio 1992, pagine da 15 a 26). Ma forse questo riferimento alla nozione di rispetto è spiegato, in questo caso preciso, dalle credenze religiose di Tom Regan, che possono portarlo a credere che «tutto va in fin dei conti nello stesso senso», e che un atteggiamento psicologico «positivo» da parte del dominante porta necessariamente delle conseguenze positive per il dominato.