L’importanza del problema materia-spirito per la causa animale
«Riteniamo necessario che il movimento animalista prenda coscienza che non è possibile ignorare la problematica del dualismo «materia-spirito». Non dobbiamo permettere che in nome della scienza si neghi l’esistenza e il significato della sensibilità animale.»
Il 17 e 18 marzo 2005 si è tenuto a Londra, per iniziativa del CIWF, un colloquio sulla sensibilità animale [1]. Oltre alle conferenze, il convegno prevedeva numerosi "posters", lavori riassunti in manifesti esposti in una sala apposita. D. Olivier e E. Reus sono gli autori di uno di questi posters [2], che era accompagnato da un articolo esplicativo, messo a disposizione dei partecipanti al colloquio. Proponiamo la traduzione della versione francese, ampiamente rielaborata, di tale articolo; essa è stata pubblicata nel numero 26 dei Cahiers Antispécistes, interamente dedicato alla questione della coscienza animale.
La Redazione
Generalmente i militanti animalisti ritengono che il cartesianesimo sia superato e che oggi la scienza riconosca come un dato incontestabile che gli animali siano dotati di sensibilità. Ma lo statuto scientifico della sensibilità è tutt’altro che acquisito. Non solo la soggettività è assente dai domini fondamentali della conoscenza, ma ne è costitutivamente esclusa. La fisica (che, una volta caduto il dualismo cartesiano, si trova ad avere il ruolo di scienza-madre) è incapace di integrare la sensibilità nella sua visione del mondo. Una parte non trascurabile della filosofia della mente propone un concetto di coscienza da cui la coscienza stessa è assente, essendo stata eliminata da esso l’esperienza soggettiva - i sentimenti, i qualia - e sono state conservate le sole relazioni funzionali.
Questa situazione autorizza dei discorsi in cui la soggettività sembra sfuggire al dominio della conoscenza ed essere relegata a quello delle credenze personali, che possono essere liberamente scelte dagli individui, come ad esempio le credenze religiose. Si tratta di un ostacolo, di cui si è sottovalutata l’importanza, ad una seria considerazione della questione della sensibilità animale.
Riteniamo necessario che il movimento animalista prenda coscienza che non è possibile ignorare la problematica del dualismo «materia-spirito». Non dobbiamo permettere che in nome della scienza si neghi l’esistenza e il significato della sensibilità animale.
Una possibilità a cui pensiamo è una «Dichiarazione sulla sensibilità» con la quale scienziati e altri intellettuali sottoscrivano la seguente proposizione: «la sensibilità è una realtà oggettiva del mondo, che non deve essere negata in nome della scienza.»
Benché il problema del rapporto materia-spirito sia interamente aperto, non siamo del tutto disarmati. Non possiamo provare la realtà della sensibilità, ma possiamo provare che nessuno può ritenerla irreale - così come nessuno può dubitare della realtà del mondo fisico. Questo ci fornisce delle ragioni sufficienti per rifiutare le principali forme di elusione della coscienza presenti in alcune correnti della filosofia e della scienza. Queste ragioni derivano dalla nostra stessa situazione di esseri sensibili e intenzionali.
Le principali correnti della filosofia - e la morale comune - ritengono che la condizione necessaria per essere considerati come pazienti morali, (condizione necessaria e sufficiente per l’utilitarismo) sia il possesso della sensibilità. Dall’intensità con la quale abbiamo coscienza delle emozioni provate dagli altri dipende l’attenzione che prestiamo loro. Perciò un elemento decisivo per spingere gli esseri umani ad un trattamento etico verso gli altri animali è il pieno riconoscimento che questi ultimi hanno una vita mentale, dei pensieri, dei desideri e dei sentimenti. Il movimento animalista confida nel sostegno che a questo riguardo possono fornirgli sia la scienza che la filosofia contemporanea: il dualismo cartesiano anima-corpo è quasi unanimemente rifiutato e nessuno può più sostenere la tesi dell’animale-macchina.
Su cosa si basa questa fiducia nella solidità delle nostre conoscenze sulla sensibilità? Sull’idea che il senso comune, combinato con i dati scientifici, non permette più di dubitare della realtà della coscienza. In un certo senso questo punto di vista ha un fondamento. Abbiamo una conoscenza intuitiva della presenza della sensibilità negli altri, anche se tale credenza in questa facoltà decresce quando la applichiamo ad esseri molto diversi da noi (i molluschi, le meduse.). Il principale elemento su cui basiamo le nostre conoscenze e credenze sulla sensibilità è l’esperienza personale che ne abbiamo, il fatto che noi stessi proviamo dei sentimenti. L’attribuzione di una vita mentale ad esseri diversi da noi si basa sull’analogia, sulle similitudini fisiche e comportamentali. Ora, sia nel caso dei comportamenti che della fisiologia, è innegabile che lo sviluppo delle diverse branche della scienza conferma chiaramente la realtà della sensibilità animale. Tre discipline hanno un ruolo particolarmente importante a questo riguardo:
- la teoria dell’evoluzione ha rivelato una parentela fra gli animali (umani inclusi) da cui derivano sia analogie fisiche che mentali [3];
- l’etologia - i cui metodi si stanno avvicinando a quelli della psicologia e della sociologia umana - ha raccolto dati sui comportamenti sia individuali che collettivi (compresi quelli culturali);
- la neurobiologia ha stabilito delle corrispondenze sempre più precise fra aree del cervello e facoltà di percezione, emozione o azione, ed ha sviluppato la comparazione fra i sistemi nervosi di animali appartenenti a specie diverse.
Tutto questo è vero; tuttavia non vi sono state ricadute positive di questi saperi sulla condizione animale, per due ragioni che appartengono al dominio stesso della conoscenza:
1. la prima riguarda lo statuto incerto che generalmente è attribuito all’etica. Il discorso comune pone una radicale frattura fra la scienza e l’etica. La scienza rivela delle verità oggettive, dunque valide per tutti, delle verità che esistono indipendentemente dal fatto che dei soggetti accedano alla loro conoscenza. L’etica spesso è percepita come discorso che ha uno statuto inferiore. Le prescrizioni che essa enuncia sono di solito presentate come dotate di una validità relativa, limitata a chi le sostiene. Le proposizioni etiche, a differenza di quelle scientifiche, non avrebbero alcuna oggettività, alcun valore di verità. Non si tratterebbe in esse che di opinioni soggettive su ciò che sia bene o male. E dato che le prescrizioni etiche si presentano come dotate di valore universale, mentre soggetti diversi ne sostengono versioni differenti ed incompatibili, se ne deduce una prova in favore del relativismo. Questa conclusione contrasta con ciò che avviene nel caso dei discorsi scientifici, dove l’esistenza di teorie divergenti è interpretata come sintomo del fatto che la verità, necessariamente unica, non è stata ancora scoperta.
2. La seconda ragione è che, in alcuni campi fondamentali della conoscenza, il fenomeno della coscienza è compreso assai male. Non solo la sensibilità vi è assente, ma è costitutivamente esclusa, o meglio vi è integrata come falsa coscienza o come fenomeno superfluo. Questa assenza rischia continuamente di essere usata per negare la sensibilità animale; oppure - il che, in rapporto al modo in cui devono essere trattati gli animali, è spesso la stessa cosa - per dichiarare indecidibile e priva di significato la questione della vita mentale degli animali non umani; o ancora per dichiararla non pertinente alla scienza di modo che, come l’etica, essa si trova esclusa dal dominio della verità e dell’oggettività, per essere rinviata a quello delle opinioni personali. Questa situazione è una manifestazione della nostra incapacità di trattare correttamente il rapporto fra componenti mentali e non mentali della realtà.
Il problema del rapporto materia-spirito è a tutt’oggi irrisolto e appare per molti aspetti inestricabile. Siamo completamente disarmati a tale riguardo? Riteniamo di no. Sosterremo che esistono delle argomentazioni che ci permettono di rifiutare le principali forme di elusione della coscienza che troviamo in alcune correnti della filosofia e delle scienze. Possiamo affermare che il modo con cui tali discipline trattano la sensibilità non è in realtà accettabile. È importante mettere in chiaro questo punto, anche se non si è in grado di proporre un alternativa costruttiva: riconoscendo come tali le manchevolezze di queste teorie, si può impedire che l’insufficienza della loro comprensione della coscienza sia utilizzata per screditare la questione della sensibilità animale.
Le ragioni in base a cui riteniamo improponibile il modo in cui viene trattata la sensibilità in alcuni approcci scientifici e filosofici non costituiscono una dimostrazione: non risultano da fatti certi collegati fra loro da regole logiche da cui derivino delle conclusioni. Non per questo si tratta di argomenti deboli. Riassumendo, la nostra argomentazione consiste in questo: dalla nostra condizione di esseri sensibili deriva il fatto che noi possediamo una serie di credenze obbligate (o inevitabili). Il nostro modo di essere al mondo fa si che crediamo necessariamente nella verità di alcune cose. Di conseguenza, tutte le teorie che non permettono di integrare queste credenze non possono essere considerate come scientifiche, come un insieme di conoscenze vere.
Dopo aver esposto quali sono queste credenze necessarie, vedremo per quali aspetti i discorsi dominanti o largamente diffusi in molti campi del sapere risultino insoddisfacenti. Termineremo chiedendo al movimento animalista di prestare più attenzione alla questione materia-spirito, e di cercare un modo di affrontarla che prenda in considerazione il riconoscimento della sensibilità animale.
Come esseri coscienti e intenzionali, siamo portati a scegliere delle azioni fra quelle che riteniamo possibili. Con ciò noi deliberiamo, prendiamo delle decisioni. Non possiamo astenerci dal farlo. Nel momento stesso in cui percepiamo diverse strade come accessibili, abbiamo bisogno di motivazioni per prendere l’una o l’altra. E questo non è specifico dei soli esseri umani.
Da tale situazione di esseri sensibili, costretti a decidere le nostre azioni, derivano un certo numero di credenze inevitabili: noi necessariamente crediamo che 1) esiste una risposta giusta alle domanda «che fare?»; 2) esiste un mondo esterno a noi; 3) le nostre decisioni e volizioni determinano i nostri atti.
Decidere vuol dire cercare la risposta giusta alla domanda «Che fare». L’etica può essere definita come la teoria della risposta vera a questa domanda [4].
Il tema della sensibilità è stato affrontato in diversi numeri dei Cahiers, in particolare il numero numéro 23. Il presente articolo si colloca nella prosecuzione del lavoro intrapreso dall’équipe dei Cahiers in occasione dell’elaborazione di quel numero, di cui riprende alcuni aspetti.
Per il fatto stesso che molte azioni diverse ci appaiono possibili, e che quella che verrà effettivamente compiuta ci appare come dipendente dalla nostra decisione, non possiamo evitare di porci la domanda «che fare?». Cercare la risposta giusta ad essa significa supporre che ne esista una, a prescindere dal fatto che la si trovi o meno. La nostra ricerca non avrebbe senso se non avessimo tale opinione. Ed è impossibile non cercare, poiché dobbiamo comunque scegliere.
Crediamo nella realtà oggettiva di una risposta giusta (vera), così come crediamo nella realtà oggettiva di una risposta giusta ai problemi descrittivi di cui si occupano le scienze. La giustezza della decisione che noi prendiamo quando siamo posti di fronte ad una scelta non ci sembra garantita dal fatto che è proprio quella che abbiamo scelto. (Se fosse questo il nostro criterio di «buona scelta», saremmo nell’incapacità di scegliere). In un secondo momento possiamo pentirci di una decisione presa. Spesso rimaniamo nell’incertezza sulla bontà delle ragioni che guidano le nostre azioni. Questo dubbio si fonda sul confronto fra i nostri giudizi, ed altri giudizi - quelli buoni - di cui postuliamo l’esistenza anche nel caso in cui non riuscissimo a scoprirli.
Dunque, noi crediamo che le asserzioni prescrittive abbiano valore di verità, così come le asserzioni descrittive. Si può far professione di relativismo [5], ma non crederci realmente.
Se noi compiamo delle azioni è perché crediamo che esse modifichino qualcosa nel mondo. Il coniglio che fugge verso la sua tana crede nell’esistenza della tana e nell’efficacia della sua azione al fine di scappare alla volpe che lo insegue, o almeno nella sua efficacia per placare la propria paura. Noi crediamo nell’esistenza di un mondo fisico, per lo meno come supporto di una catena causale che connette le nostre azioni ad un qualche effetto sui sentimenti di altri esseri coscienti - non fosse altro che sui nostri propri sentimenti futuri. Noi crediamo nell’esistenza di una realtà non mentale e di una realtà mentale, entrambe componenti lo stesso mondo, in interazione fra loro. Noi crediamo in delle relazioni causali che ci permettono di influire sugli altri elementi di questo mondo tramite le nostre azioni.
Poiché tale convinzione è inerente a tutti gli esseri sensibili, che decidono delle loro azioni, non possiamo credere che il solipsismo [6] sia una teoria vera.
L’unico punto d’appoggio di questa teoria è che possiamo conoscere direttamente solo la nostra propria sensibilità. Questa constatazione sembra autorizzare le tesi per cui «solo la mia mente esiste». Ma se ci si attiene al principio per cui «Si crede vero solo ciò che si sente», la sola teoria difendibile è quella del solipsismo istantaneo. Poiché la sola sensibilità che provo è quella presente. Ora, ci è impossibile pensare che essa sia la sola che esiste. Di fatto, crediamo nell’effetto delle nostre decisioni e azioni su una soggettività futura - la nostra - di cui non abbiamo una sensazione presente nel momento della scelta. Ne consegue che crediamo necessariamente all’esistenza di soggettività altre rispetto alla nostra attualmente presente.
Nemmeno possiamo credere che sia impossibile per principio determinare dall’esterno se un oggetto sia sensibile. Se fosse così, tutti i comportamenti etici sarebbero impossibili. Non potremmo nemmeno cercare la risposta giusta alla domanda «che fare?» se pensassimo di non avere alcun mezzo per trovarla. Questo non significa che sia sempre possibile determinare con certezza se un certo oggetto sia sensibile - sappiamo che a tutt’oggi non è così. Ma non possiamo reputare inutile la ricerca di tale conoscenza e abbiamo una fiducia piuttosto fondata nella nostra capacità presente di riconoscere la sensibilità negli esseri che ci circondano.
Si noterà che la nostra soggettività futura è, in rapporto al nostro sentire presente, in una posizione di esteriorità totale, al pari della soggettività di qualsiasi altro individuo. Ne deriva che non è più problematico credere nella nostra (futura) sensibilità, che nella sensibilità degli altri. Parimenti ne deriva che, contrariamente ad un’idea diffusa, l’altruismo (azione a beneficio della soggettività futura di terzi) non è più inconcepibile dell’egoismo (azione a beneficio del nostro io futuro). Se il nostro sentire futuro è una motivazione per un’azione giusta, ciò vale ugualmente per il sentire di un altro individuo.
Il fatto di doverci confrontare con delle scelte ci costringe a prendere delle decisioni, cosa che possiamo fare solo perché crediamo che le nostre decisioni influiscano sulle nostre azioni. Di conseguenza, la nostra condizione di esseri deliberanti fa si che non possiamo ritenere vero l’epifenomenismo [7].
Chi, ritenendo valida questa teoria, si sforza di trovare degli argomenti in suo favore, mostra con ciò stesso di non credevi realmente, poiché se l’epifenomenismo fosse vero, il fatto di pensarlo non avrebbe alcun potere sulla nostra possibilità di dirlo.
Dichiararsi seguaci dell’epifenomenismo, è mettersi in una posizione simile a quella di quella signora che, dicono, scrisse a Bertrand Russel che il solipsismo era una teoria talmente fondata che si stupiva del fatto che così poche persone vi aderissero [8].
Le credenze obbligate di cui abbiamo parlato non trovano spiegazione né nella fisica, né in buona parte della filosofia della mente.
La fisica non è che una scienza fra le altre, e tuttavia il modo con cui può - o non può - comprendere la sensibilità, ha un importanza particolare. Infatti, una volta rifiutato il dualismo, ogni fenomeno reale è in ultima analisi un fenomeno fisico. Ciò non implica che l’elaborazione di ogni conoscenza debba far appello al bagaglio dei fisici e che questo sia il modo migliore per raggiungere dei risultati. Studiare i comportamenti, la psicologia, la biologia, non richiede la conoscenza delle caratteristiche di tutte le particelle e dei campi (elettromagnetici e di altro tipo) implicate nei fenomeni descritti. D’altra parte, poiché la fisica si situa a monte delle altre discipline, queste non possono sostenere cose incompatibili con le verità fisiche.
Ora, la nostra concezione della fisica è costitutivamente incapace di integrare la sensibilità in modo accettabile.
Benché questa concezione della fisica sia superata, essa resta il modello ideale della fisica, tanto presso il grande pubblico che fra gli scienziati (fisici inclusi) poiché, a differenza della meccanica quantistica, sembra fornire un’immagine intelligibile del mondo. Si tratta però di un apparenza ingannevole: la fisica classica è incapace di integrare la sensibilità e di dar soddisfazione alle nostre credenze inevitabili.
La fisica classica descrive il mondo come una serie di quantità che evolvono nel tempo secondo una funzione di sviluppo perfettamente determinata e calcolabile. Un’immagine che può illustrare questa concezione è quella della descrizione fisica delle bocce del biliardo, dove la serie numerica corrisponde alla velocità e alla posizione delle bocce. La conoscenza dello stato del mondo in un istante dato - l’insieme delle posizioni e velocità in quell’istante - è sufficiente per calcolare il suo stato in ogni altro punto del tempo, passato o futuro . Èquesto che si intende con la definizione di determinismo laplaceano [10], che governa la fisica classica.
Ci sono molte ragioni per le quali il mondo della fisica classica è incompatibile con le credenze che noi necessariamente abbiamo, in quanto esseri sensibili, deliberanti e agenti.
Noi crediamo necessariamente al carattere reale della causalità. Non avrebbe senso decidere ciò che sia giusto fare se l’esito della decisione non fosse causa di qualche cambiamento (o non-cambiamento) nel mondo. Poiché crediamo necessariamente che le nostre decisioni abbiano un senso, crediamo anche necessariamente nella realtà della causalità. Ma non c’è spazio per la causalità nel mondo laplaceano. Gli stati del mondo nei differenti momenti del tempo sono interdipendenti nel senso che la conoscenza completa di uno di essi fornisce la conoscenza completa di tutti gli altri (tramite la funzione di sviluppo), ma niente indica che essi siano l’uno causa dell’altro. È interessante notare che, da questo punto di vista, troviamo nella fisica classica un’interpretazione analoga del tempo. Il tempo non ha direzione; la relazione che esiste fra due stati è la stessa quale che sia il loro ordine temporale.
Quando noi (o un altro scimpanzè) colpiamo una noce con un sasso in t1 affinché essa si rompa in t2, crediamo che il gesto in t1 causi la rottura della noce in t2. Non crediamo che il fatto che la noce si rompa in t2 sia causa del fatto che la colpiamo con un sasso in t1, anche se si può dire che l’avvenimento in t2 implica necessariamente quello in t1 ( poiché la noce si è rotta in t2, l’abbiamo necessariamente colpita in t1). Il determinismo laplaceano contiene solo queste relazioni di necessità, che non sono relazioni causali. Non esistono relazioni causali nel determinismo laplaceano.
Anche la probabilità è esclusa. Di conseguenza i concetti della termodinamica che si basano sulla probabilità e/o la controfattualità (come la temperatura o l’entropia), non descrivono delle realtà del mondo. È per questo che i tentativi di reintrodurre la causalità e la direzionalità del tempo attraverso queste nozioni sono votati allo scacco.
Nel mondo della fisica classica, non c’è spazio per la sensibilità (i qualia). La spiegazione di ogni evento è completa quando è data la serie delle posizioni e delle velocità delle particelle [11] che compongono il sistema e la loro evoluzione. La sensazione è superflua. La sequenza che dalla mano che tocca la superficie bollente porta al movimento delle particelle nei nervi e nel cervello fino alla bocca che grida è completo senza che ci sia bisogno di far riferimento al dolore. Ma sappiamo che è il dolore che ci fa gridare; è il dolore che prendiamo in considerazione nelle nostre decisioni su come agire. Detto in altro modo, è il dolore che ha un valore etico (negativo).
La fisica laplaceana non può integrare il dolore che come epifenomeno. Si tratterebbe di un fenomeno supplementare, causato dalla disposizione delle molecole nel cervello, ma incapace di provocare qualsiasi effetto, poiché le leggi che governano le molecole sono sufficienti a spiegare il grido. Il dolore si produrrebbe in un universo «mentale» parallelo, condizionato dall’universo «materiale», ma senza effetto su di esso. «Come sapete che gli animali soffrono davvero? Le loro grida potrebbero non essere che riflessi!», è un’obiezione classica alle argomentazioni in favore degli animali. E in effetti, se la fisica laplaceana fosse vera, non potremmo mai saperlo. Non solo non potremmo saperlo per quanto riguarda gli altri animali, ma nemmeno per gli esseri umani, né per noi stessi - il nostro ricordo del dolore potrebbero non essere stato causato da un dolore reale. Ma tutto questo non è accettabile per noi, poiché renderebbe senza senso le nostre decisioni.
Se la fisica classica è necessariamente epifenomenista, lo è anche la neurobiologia, che si occupa della fisico-chimica del cervello senza far appello alla meccanica quantistica [12]. La neurobiologia ha raggiunto dei progressi spettacolari nella conoscenza dei settori del cervello e del sistema nervoso la cui attivazione è associata a differenti percezioni, attività mnemoniche, emozioni o movimenti. Su questa base essa ha sviluppato la comprensione delle analogie fra animali differenti, umani e non. Tuttavia, nella misura in cui essa analizza il funzionamento del cervello sulla base del modello classico, è necessariamente epifenomenista.
La fisica classica è stata sostituita dalla meccanica quantistica. Questa è giunta a delle conclusioni davvero straordinarie, alcune delle quali possono essere interpretate come indici del fatto che, per quanto riguarda la soggettività, qualcosa sfugge alla scienza contemporanea. Tuttavia, a tutt’oggi, non ci sono delle interpretazioni convincenti e chiare su ciò che la meccanica quantistica comporta per il corso del mondo.
La meccanica quantistica, prendendo la sua formulazione corrente, implica che il mondo evolve in modo determinista, finché non viene misurato. In assenza di misurazioni, governato solo dall’equazione di Schroedinger, il mondo sarebbe laplaceano. Tuttavia nel momento in cui viene misurato, «salta» indeterministicamente verso uno stato differente, tramite un processo che viene chiamato (per ragioni storiche) «riduzione del pacchetto d’onde». La misura è un’operazione effettuata da un operatore cosciente; questo parrebbe significare che la coscienza - l’atto mediante il quale noi percepiamo lo stato del sistema - modifichi tale sistema in modo differente da ciò che potrebbe fare qualsiasi altro processo fisico. Una simile conclusione è però difficilmente ammissibile, dato che l’operatore stesso non è a sua volta che un sistema fisico, che dovrebbe essere governato dalla nota equazione determinista di Schroedinger.
La risposta dominante a questa contraddizione è conosciuta col nome di interpretazione di Copenhagen della meccanica quantistica; questa sostiene che tutto ciò che si può chiedere ad una teoria fisica è predire correttamente i risultati degli esperimenti. Una tale posizione si basa su un’interpretazione operativista della scienza: le entità fisiche sono definite dalle operazioni che permettono di apprenderle.
Niels Bohr ha detto:
Non c’è un mondo quantistico. C’è solo una descrizione astratta della meccanica quantistica. È un errore pensare che il compito della fisica consista nello scoprire come è la natura. La fisica riguarda solo ciò che noi possiamo dire della natura [13].
In tal modo la fisica diventa la scienza dei risultati delle operazioni di misura. Non si fa più riferimento ad una realtà soggiacente, la cui stessa esistenza è messa in dubbio, negata o ritenuta inconoscibile e pertanto privata di senso. Questa interpretazione dominante della fisica contemporanea riconosce la sensibilità, ma al prezzo di una sorta di solipsismo collettivo: tutto ciò che esiste, o che ha importanza, è l’accordo «intersoggettivo» degli osservatori sulle loro percezioni - dove per osservatori si intendono implicitamente gli esseri umani [14], ovvero, si è tentati di dire, dei fisici quantisti medi!
L’operativismo proprio all’interpretazione di Copenhagen si contrappone al realismo, secondo cui le cose hanno un esistenza in se stesse, indipendentemente dal modo in cui noi le conosciamo (o meno): il fatto che una persona malata abbia la febbre non è definito dall’accordo che si potrebbe stabilire fra i medici sui risultati di alcune procedure chiamate «misure della temperatura».
La nostra condizione di esseri sensibili e deliberanti fa sì che noi aderiamo necessariamente al realismo, o almeno che crediamo nell’esistenza di una realtà distinta dalla nostra esperienza soggettiva, dalle nostre personali percezioni immediate. Ridurre questa realtà alle menti degli altri esseri umani, come vorrebbe l’approccio «intersoggettivo», non è accettabile: gli altri uomini non hanno nulla di particolare che renderebbe la loro mente direttamente percepibile dalla nostra, o che renderebbe le loro esperienze soggettive, quali il piacere ed il dolore, qualcosa di reale ed importante per noi, mentre la soggettività dei non-umani resterebbe irreale o priva di senso. Di fatto, l’approccio «intersoggettivo» presenta un evidente pregiudizio specista. Non è possibile però darne una versione non-specista, perché questo richiederebbe anzitutto che noi sapessimo chi sono gli esseri sensibili nel mondo reale. Il che presupporrebbe in primo luogo l’esistenza di un mondo reale nel quale spetta alla fisica determinare chi è sensibile.
Di conseguenza, non possiamo ritenere vera l’interpretazione di Copenhagen della meccanica quantistica. La fisica classica descriveva un mondo reale senza soggettività, la fisica contemporanea, nella sua interpretazione dominante, integra la soggettività (umana) ma svuota la realtà della sua sostanza. Nessuna delle due dà soddisfazione alle nostre credenze obbligate [15].
La maggior parte della contemporanea filosofia della mente pretende di avere un’ispirazione scientifica. Il dualismo mente-corpo è stato prevalentemente rifiutato. In effetti esso è difficilmente difendibile. Ma il pensiero contemporaneo ha «risolto» il problema dell’articolazione fra mentale e non mentale attraverso l’eliminazione pura e semplice del mentale. Un’eliminazione operata in silenzio: i cassetti del «mentale» e del «non-mentale» sono rimasti al loro posto nello scaffale dei concetti. Semplicemente, il cassetto del «mentale» è stato discretamente svuotato del suo contenuto.
La teoria oggi più diffusa fra i filosofi della mente è il funzionalismo. Secondo questa teoria, gli stati mentali sono costituiti da relazioni causali con gli stimoli sensoriali, con gli altri stati mentali e con i comportamenti. Qualcosa può essere definito come stato mentale non in virtù della sua costituzione, ma del ruolo che esercita nel sistema a cui appartiene, nello stesso modo in cui ciò che fa di un oggetto un carburatore o un occhio non dipende dalla materia con cui è fatto e dal modo in cui è costruito, ma dalla sua funzione in un motore o in un organismo.
Il funzionalismo si è largamente nutrito di riflessioni legate allo sviluppo dell’informatica, e a volte di prestiti della teoria dell’evoluzione. Si è imposto come teoria dominante perché resta nel campo delle dottrine «materialiste» (non mistiche) ma sembra sfuggire alle critiche che colpivano le teorie precedenti, in particolare il comportamentismo [16].
Il comportamentismo si caratterizzava per il suo rifiuto di ogni riferimento alla psicologia, riducendo l’analisi del comportamento all’analisi di relazioni rigide fra degli input (gli stimoli) e degli output (i movimenti). Questa impostazione è oggi unanimemente rifiutata. Gli autori moderni introducono flessibilità e anelli intermedi nel rapporto input/output. A differenza dei comportamentismi, i funzionalisti usano termini del vocabolario mentalista quali «desiderio», «credenza», «intenzione». Ma lo fanno in modo tale che questi termini in se stessi non designano nulla. Sono nomi dati ai nodi del reticolo di interdipendenze che porta dall’input all’output, definiti solo dal rapporto che hanno con altri nodi. Così il desiderio «non bagnarsi» è spiegato come un elemento che, associato ad altri elementi - come l’input sensoriale «vedere delle gocce» e la credenza «sono allo scoperto» - conduce all’azione «aprire un ombrello». Un funzionalista non dirà che una sensazione è uno stato mentale che ha un’esistenza per se stesso. Un elemento X è definito come sensazione solo perché intrattiene certe relazioni con altri elementi in una catena esplicativa, esso consiste unicamente nel fatto di avere tali relazioni.
È per questo che il funzionalismo è in realtà un neo-comportamentismo: il percorso che permette di passare da un input sensoriale ad un output motorio non ha nessun riferimento alla soggettività (alle emozioni, alle sensazioni, alle preferenze. provate da individui sensibili). I termini che nel linguaggio comune designano dei qualia [17] sono sì presenti nei testi funzionalisti, ma i fatti cui essi rinviano sono stati eliminati. L’esperienza sensibile propriamente detta, in quanto realtà con una sua esistenza intrinseca e indipendente dalle relazioni che possono esserci con altri eventi, è stata fatta scomparire.
Vi è una somiglianza fra un tal modo di procedere e quello della fisica classica, che è ancora il modello ideale della scienza. Per quest’ultima il mondo si riduce ad un insieme di quantità, che sono considerate come descrizione esaustiva di ogni aspetto di tale mondo in un istante dato, e ad un insieme di relazioni (leggi) che permettono di dedurne la descrizione in un altro istante qualsiasi. Accanto ad una fisica che sembra ammettere solo delle cose vuote, che esistono solo in relazione con altre cose, vuote a loro volta, si è costituita una filosofia che presenta le stesse caratteristiche [18].
Il funzionalismo permette di attribuire una mente agli animali non umani [19]. Per tale aspetto esso non è specista. Solo che gli animali non ci guadagnano nulla, poiché una mente così concepita non ha nulla a che vedere con ciò che intendiamo ordinariamente con ciò. Si assiste ad una ridefinizione della mente, tale che ciò che si analizza è una nozione di coscienza da cui la coscienza è assente. La facoltà di provare emozioni e di attribuirvi un valore positivo o negativo, è stata costitutivamente eliminata. Dato che il motivo per cui importa agli esseri sensibili trovarsi in una situazione piuttosto che in un’altra è assente, non c’è ragione di attribuire un valore particolare a degli esseri dotati di una «mente» così ridefinita.
Il funzionalismo non si occupa di oggetti concreti ma di relazioni, indipendentemente dal loro supporto materiale: una stessa relazione può essere «espressa» da supporti diversi. Molti testi funzionalisti si servono grossolanamente dell’analogia fra mente e calcolatore e si ispirano ai lavori sull’intelligenza artificiale. Il cervello è concepito come un computer, la coscienza come il programma che lo fa funzionare.
Le macchine pensano, provano sensazioni? Secondo l’analogia di cui sopra, sembra difficile rispondere negativamente: poco importa se un algoritmo è impiantato in un cervello di carne o in una macchina di metallo e silicone. Per i sostenitori dell’intelligenza artificiale debole le macchine, dotate di programmi adeguati, simulano il pensiero; per i sostenitori dell’intelligenza artificiale forte, esse pensano. Noi non ci concentreremo su questa distinzione [20], poiché la difficoltà sta a monte: nell’assimilazione fra fenomeni mentali ed algoritmi [21].
Un algoritmo è un oggetto astratto, che non esiste in nessun tempo o luogo particolari. In quanto tale, è difficile paragonarlo ad una sensazione, ad un pensiero, o ad una simulazione di essi.
Piuttosto si ritiene che sia «l’esecuzione» di un algoritmo che è (o simula) il pensiero. L’esecuzione consiste nell’applicazione di un algoritmo ad un insieme di dati iniziali, o meglio consiste nella trasposizione dei dati in stati fisici di una macchina. «L’esecuzione» dell’algoritmo consiste allora in una serie finita di avvenimenti fisici che si svolgono in un tempo concreto. Non è assolutamente evidente sostenere che questi avvenimenti in quanto tali siano un’esecuzione di quel particolare algoritmo. Possono ugualmente essere descritti come l’esecuzione di un algoritmo del tutto diverso, che operi sugli stessi dati di partenza o su altri. Oppure li si possono descrivere senza fare affatto riferimento ad alcun algoritmo.
Parimenti si può descrivere qualsiasi avvenimento o sequenza di avvenimenti che accada nel mondo (un cucchiaio che cade, dell’acqua che bolle) come l’esecuzione di un qualsiasi algoritmo arbitrario che opera su una qualsiasi serie arbitraria di dati. Basta stabilire le adeguate regole di corrispondenza fra gli stati fisici successivi ed i valori dei dati corrispondenti. Se l’esecuzione di un algoritmo bastasse a produrre la coscienza (essendo identico ad essa), la coscienza, così come tutti i qualia possibili, sarebbe presente sempre e ovunque. Di conseguenza, dovremmo assumere per vera una forma estrema di panpsichismo [22].
Un algoritmo è una «ricetta», la cui esecuzione si svolge passo dopo passo in maniera automatica, senza che vi sia minimamente bisogno che il supporto che opera l’esecuzione gli attribuisca un senso [23]. Se alcuni algoritmi, o la loro esecuzione costituiscono o generano il pensiero o la sensazione, la sensibilità è superflua. Come nella fisica classica, la coscienza è tanto inesistente quanto inoperante. Nel quadro del pensiero funzionalista, la sensibilità può avere un esistenza solo in senso epifenomenista. Ma ci è impossibile credere che la sensibilità sia un epifenomeno, dunque non possiamo accettare il funzionalismo come teoria vera.
Giungiamo così alla conclusione che, a causa della nostra condizione di esseri sensibili e intenzionali, non possiamo credere ad una teoria che riduce la coscienza all’esecuzione di un algoritmo [24].
Spesso il funzionalismo si ispira non solo all’informatica, ma anche alla teoria dell’evoluzione. In questo caso si considera come caratteristica principale della mente, o come sua stessa definizione, il fine a cui serve la coscienza : favorire la riproduzione dell’organismo dotato di un «programma mentale». Che si associno o meno al funzionalismo, alcune interpretazioni della teoria dell’evoluzione partecipano alla marginalizzazione della sensibilità.
Il darwinismo è una teoria scientifica che, in quanto tale, fa appello solo alle cause efficienti. Ha permesso di rendere intelligibile la complessità e le trasformazioni del vivente senza riferirsi alla realizzazione di un progetto, all’esecuzione di un piano, senza postulare una teleologia. Tuttavia, sin dalla sua apparizione, ha generato un doppio infedele, che ostinatamente va nella direzione opposta. Una versione contemporanea di questo doppio si è sviluppata parallelamente alla sociobiologia. (Si tratta di uno stravolgimento e non di un risultato necessario del metodo dei sociobiologi). Questa versione si appropria dei termini della teoria evoluzionista per metterli al servizio di un’interpretazione adattazionista e finalista della realtà. L’espressione «gene egoista», presa in prestito da Richard Dawkins, ne è diventata il supporto privilegiato sia nei discorsi divulgativi che specialistici.
L’adattazionismo consiste nel ritenere che tutte le caratteristiche di un individuo siano necessariamente favorevoli alla sua «fitness» [25] e che la selezione naturale abbia eliminato tutte le caratteristiche che, a tale fine, risultino inutili o nocive. Sulla scia dell’adattazionismo, il finalismo è risorto, non più nella forma di un orologiaio del mondo che guida le sue creature, ma in quella di una molteplicità di minuscoli geni che manipolano i loro abitacoli per perseguire il loro proprio ed unico scopo : inondare l’universo di copie di se stessi. È una concezione di questo tipo che ispira l’interpretazione «darwiniana» dell’etica proposta da Michael Ruse ed Edward Wilson:
Gli esseri umani funzionano meglio se i loro geni li ingannano facendo credere loro che esista una morale oggettiva e disinteressata alla quale tutti dovrebbero obbedire [26].
Noi pensiamo moralmente poiché siamo sottoposti a delle utili regole epigenetiche. Queste ci predispongono a pensare che certe forme di condotta siano buone, altre cattive. Di sicuro le regole non costringono le persone ad adottare ciecamente certi comportamenti. Ma poiché conferiscono alla moralità l’illusione dell’oggettività, ci elevano al di sopra dei nostri desideri immediati per condurci (a nostra insaputa) a delle azioni che alla fine, sono più utili ai nostri interessi genetici [27].
La morale è piuttosto un’illusione collettiva dei geni messa in scena per renderci «altruisti». La moralità come tale non è più giustificata di qualsivoglia altro adattamento, per esempio gli occhi, le mani o i denti. Si tratta di qualcosa che ha un valore biologico, e null’altro [28].
Una tale analisi, applicata qui alla morale umana, vale per principio per ogni sentimento e pensiero che generi azioni. Questa tesi sostiene che tutti i soggetti agiscano sulla base di una falsa coscienza: le vere finalità dei loro atti sfuggono ad essi, non in modo occasionale, non a causa di una conoscenza necessariamente lacunosa della realtà, ma per il fatto che la loro coscienza è necessariamente falsa: deve esser tale per raggiungere l’obiettivo che essi sono destinati a servire. Il solo scopo reale è quello di un sistema che li scavalca, mentre i loro propri fini sono solo delle illusioni destinate a condurli là dove la «natura», i «geni» o le «leggi dell’evoluzione» vogliono che essi vadano.
Possiamo concordare con questa tesi?
La nostra condizione di esseri coscienti fa si che noi dobbiamo riflettere e decidere per agire. Ora, non potremmo farlo se ritenessimo la nostra coscienza sistematicamente falsa, se ci credessimo vittime di un’illusione che non possiamo dissipare. Tanto più che noi non riflettiamo unicamente sui mezzi che ci servono per raggiungere un determinato obiettivo, il quale ci si imporrebbe come palesemente desiderabile. Spesso l’aspetto più difficile di una decisione sta nel trovare la risposta alla domanda «Cosa è desiderabile», nel decidere quale sia il fine (è questo l’aspetto più complesso della teoria etica). Non potremmo porci una tale domanda se pensassimo che essa ci conduce necessariamente a degli obiettivi apparenti, giustificati da ragioni illusorie, per servire a nostra insaputa scopi che ci sfuggono.
Di conseguenza non possiamo credere che la tesi di Ruse e Wilson sia vera. Questi autori si vantano di aver scoperto l’inganno della natura, trovato il suo fine nascosto. Ma se la teoria fosse vera, ne conseguirebbe che nessuno potrebbe conoscerla, visto che l’ignoranza è necessaria affinché il destino che i geni hanno assegnato ai loro ricettacoli si compia. Pertanto, il solo fatto di essere enunciata dimostra che la loro teoria è falsa.
Il rinnovamento contemporaneo dell’etica evoluzionista non implica di per sé la contestazione della sensibilità animale, al contrario. Tuttavia indirettamente rinforza dei fattori che si oppongono al pieno riconoscimento della sua esistenza e delle sue implicazioni etiche.
Nell’approccio di Ruse e Wilson, il fatto che i soggetti provino dei sentimenti e prendano delle decisioni non viene negato, il fatto che i loro pensieri influiscono sulle loro azioni nemmeno. Inoltre gli autori conservano l’assenza di fratture fra gli uomini e gli altri animali per quanto riguarda la mente, che caratterizza il sistema darwiniano.
Ma poiché non possiamo credere che la nostra coscienza sia continuamente mistificata, prendere sul serio questo tipo di teoria getta un dubbio sulla realtà della coscienza di coloro ai quali la teoria si applica (che possono solo essere dei terzi). E nel nostro contesto culturale, ci si presenta subito alla mente la separazione uomini/animali. Questa «coscienza» teleguidata da una volontà di livello superiore richiama subito nelle nostre rappresentazioni il secolare «istinto» o il moderno «programma», cioè resuscita l’idea che degli esseri dotati di questo tipo di coscienza siano di fatto delle macchine.
È per questo che è importante scovare e rifiutare questo duplicato ingannevole del darwinismo, nelle sue numerose forme. Contrariamente a quanto avviene nelle sue versioni deformate, è importante ricordare che l’apporto di Darwin è stato precisamente quello di rendere comprensibile l’evoluzione della vita senza supporre che essa sia il risultato di un senso prestabilito.
Le questioni evocate in questo articolo sono state più ampiamente sviluppate nell’opera collettiva: Yves Bonnardel, David Olivier, James Rachels, Estiva Reus, Espèces et éthique: Darwin, une révolution à venir, Tahin-party, Lyon, 2001 (http://tahin-party.org/darwin.html).
I caratteri che gli esseri viventi (e fra essi gli esseri sensibili) presentano hanno delle cause. La teoria dell’evoluzione chiarisce che cosa favorisca la diffusione di alcuni di questi caratteri, e il modo in cui delle serie di mutazioni puntuali trasmesse possano accumularsi per dar luogo all’esistenza di organismi complessi. Ma le cause (sconosciute) che hanno portato all’emergere della sensibilità, e quelle (parzialmente scoperte dalla teoria dell’evoluzione) che hanno favorito la sua trasmissione, non sono, nello schema darwiniano, atti di agenti intenzionali che hanno il potere e la volontà di imporre un contenuto alla coscienza delle creature per realizzare i loro scopi.
La «natura», così come i «geni» o l’«evoluzione» non sono portatori di senso, di volontà o di intenzioni. Solo gli individui sensibili lo sono. È importante che il carattere non finalista del darwinismo sia ristabilito onde evitare che essi ne siano privati, a vantaggio di quelle entità. In effetti, questo indebito trasferimento indebolisce la nostra percezione della realtà dei desideri e delle emozioni propri ai soli esseri che li provano. È una delle strade che portano all’oblio della sensibilità animale.
Molte conoscenze che riguardano la sensibilità sono ormai disponibili (sistemi nervosi, comportamenti, etc.). Il loro valore è innegabile. Tuttavia, a tutt’oggi non si ha la minima idea del modo in cui trattare la sensibilità in termini fisici. La gran parte degli studi concernenti la mente parte da una ridefinizione della coscienza che la priva di ciò che ne fa appunto una coscienza (il vissuto soggettivo) o che la considera un fenomeno illusorio.
Non si è valutata a sufficienza la minaccia che questa situazione comporta per i tentativi di migliorare la condizione animale, e non ci si è preoccupati abbastanza di contrastarla.
Sia la fisica che la biologia veicolano nel loro stato attuale un epifenomenismo latente. Questa teoria considera la sensibilità superflua, e la sua inutilità si converte facilmente in assenza quando si tratta di animali non umani.
Gli argomenti trattati in questo articolo possono sembrare legati a delle questioni molto astratte e specifiche della filosofia o delle scienze. Tuttavia si tratta di elementi che permettono quotidianamente di negare la sofferenza degli animali, elementi presenti anche nelle ricerche specialistiche sul «benessere» in base alle quali si prendono delle decisioni sul trattamento degli animali. A titolo di esempio, riportiamo ciò che scrive, a proposito del foie gras, il sito dell’INRA (Istituto Nazionale di Ricerche Agronomiche, Francia) in risposta alla domanda «l’atto dell’ingozzamento è fonte di dolore?»:
A causa degli stimoli che possono associarvisi (ingozzamenti ripetuti più volte al giorno, distensione delle pareti dell’esofago e del proto-ventricolo, rischio di erosione delle mucose, steatosi epatica con compressione dei visceri) l’ingozzamento viene considerato a priori come causa di sofferenza e dolore. In primo luogo, è implicito che l’uso di queste nozioni è inappropriato per gli animali, nella misura in cui esse implicano una componente psichica; è preferibile piuttosto sostituirvi la nozione di nocicezione. Nel caso dell’ingozzamento, poiché si tratta del tratto superiore del sistema digestivo e del sistema nervoso, l’analisi deve occuparsi dei nocicettori viscerali (infiammazione, rigurgito, attivazione di geni), e non permette di stabilire che essi si attivino [29].
Questo passaggio è tipico di una vasta letteratura (prodotta da scienziati e da professionisti nell’allevamento) che parla a vanvera del benessere animale. Sin dal principio il soggetto della ricerca è degradato dall’affermazione che è inappropriato usare delle nozioni con connotazioni psichiche per gli animali.
Nel 1996-97 Florence Burgat ha compiuto una inchiesta presso i ricercatori specializzati nelle condizioni di allevamento [30], in un momento in cui si chiedeva loro di sviluppare degli studi sul benessere, per rispondere ad una «domanda sociale». La maggior parte di essi manifesta una chiara reticenza ad occuparsi di aspetti che sono ritenuti non di competenza di tecnici e scienziati, dichiarando per esempio: «Gli aspetti comportamentali non sono oggettivabili, mentre noi lavoriamo su delle misure» (p. 119); «la scrofa che non si può muovere, forse sta bene, forse no, non lo si può sapere» (p. 120); «non esiste un ambiente ideale, tutto sta nel vedere come un certo individuo si adatta ad un certo ambiente» (p. 120); «il benessere non può essere un soggetto di ricerca, solo l’adattamento può esserlo» (p. 122) ; «il tema del benessere non è una questione scientifica» (p. 122). Le reazioni di questi ricercatori si spiegano in parte con il contesto istituzionale: l’introduzione del criterio del benessere sconvolge il loro lavoro che, per anni, è stato giudicato solo in base al contributo dato alla produttività ed al rendimento dell’allevamento. Tuttavia è degno di nota che i ricercatori interrogati in questa inchiesta abbiano più facilmente espresso un’emozione o una riprovazione a proposito delle condizioni degli animali da allevamento, se potevano precisare che si stavano esprimendo «sul piano personalex, o «da un punto di vista morale» e non «come scienziati», come se fosse scontato che la sensibilità non appartiene al dominio scientifico (obiettivo).
È preoccupante che venga affermato, come se si trattasse di una ovvietà, che la sensibilità non ha carattere scientifico, obiettivo. È un’affermazione tanto falsa quanto carica di conseguenze. Questa situazione autorizza a parlare della sensibilità come qualcosa che sfugge al dominio della scienza ed appartiene a quello delle credenze personali, che gli individui possono scegliere liberamente, così come fanno con le loro credenze religiose.
Al contrario, la sensibilità animale non è affatto un dominio in cui prevalgono normalmente delle credenze divergenti. In realtà ognuno sa che le anatre, i conigli, le mucche. sono esseri sensibili. Ma gli esseri umani hanno elaborato da millenni una serie di tecniche mentali per indebolire la loro percezione di questo fatto. Sono tecniche che rendono possibile una barbarie spaventosa verso gli animali: rispetto alla riprovazione sia degli altri che della propria coscienza, esse permettono una possibilità di fuga. Si è imposta una convenzione sociale che conduce a non mettere in dubbio la falsità secondo cui, in mancanza di prove tangibili del contrario, la maggior parte delle persone sarebbe spontaneamente convinta che gli animali non siano coscienti (o lo siano assai poco). Si è costruito un mito dalle molteplici sfaccettature; tale mito sostiene che la nostra percezione immediata della sensibilità animale è un’illusione del senso comune, un’illusione che una riflessione più rigorosa, che colga la verità nascosta dietro l’apparenza, permette di dissipare [31]. Ci si può aggrappare a questo mito ogni qualvolta si maltratta o si uccide.
Il fatto che la scienza possa essere utilizzata per appoggiare una tale menzogna è un ostacolo, di cui si è sottovalutata l’importanza, ad una seria presa in considerazione della coscienza animale. Nelle nostre società l’appello alla scienza è un argomento di grande autorità: affermare che una cosa non è scientifica equivale ad affermare che è falsa.
È nostro compito trovare il modo di superare questo ostacolo senza però adottare una posizione anti-scientifica, il che non sarebbe né necessario, né desiderabile.
Noi proviamo delle sensazioni. La sensibilità consiste precisamente in tale percezione soggettiva, non c’è bisogno di altre prove della sua esistenza. La coscienza è una realtà del mondo. Poiché la scienza è la conoscenza della realtà, la sensibilità appartiene al campo di ricerca scientifico.
«Questo essere è sensibile o no?» è una domanda a cui si può dare una risposta. Non è né una questione priva di senso, né tale che la risposta ad essa dipenderebbe dall’opinione personale di colui che se la pone. Individuare e contrastare tutti i discorsi che tentano di farla passare per tale è un compito che si può perseguire fin d’ora. È uno degli obiettivi da raggiungere per demolire la fortezza costruita per ignorare gli interessi degli esseri coscienti.
È necessario che il movimento animalista prenda coscienza del fatto che non può ignorare il problema «materia-spirito». Bisognerebbe occuparsi dello studio della letteratura su questo tema spinoso, avendo presente quale ne sia la posta in gioco per la questione animale.
Non dobbiamo permettere che in nome della scienza, o della conoscenza in senso lato, venga negata l’esistenza e la pertinenza della sensibilità animale. Se la scienza nel suo stato attuale non è in grado di render conto della realtà ineludibile della coscienza, questo va imputato ad una lacuna nelle nostre conoscenze, non usato come scusa per negare la realtà ogni volta che ciò sia utile a confermare la discriminazione specista.
Dobbiamo fare in modo che la discussione su questo tema si sviluppi tra i militanti, ed abbia un impatto sulla percezione pubblica della coscienza animale.
Una possibilità a cui pensiamo è la pubblicazione di una «Dichiarazione sulla sensibilità» nella quale scienziati ed altri intellettuali sottoscrivano una affermazione di questo tipo:
La sensibilità è una realtà oggettiva del mondo. Che ad oggi la fisica, le scienze e le filosofie della mente possano avere delle difficoltà a darne conto non cambia le cose.
Quando le lacune della nostra conoscenza alimentano uno scetticismo sistematico sulla vita mentale degli animali, mentre potrebbero ugualmente bene servire a mettere in dubbio quella degli umani, non si tratta di prudenza scientifica ma di discriminazione arbitraria. La ricerca onesta della conoscenza non ammette due pesi e due misure.
L’esistenza e le implicazioni etiche della sensibilità anche al di fuori della specie umana non devono essere negate nel nome della scienza.
Una tale dichiarazione, qualora riceva adesioni sufficienti, può cambiare il clima nel quale lavorano i ricercatori. L’assenza o la negazione della sensibilità cesserebbero di essere delle componenti banali del loro lavoro, per essere considerate dei punti deboli che vanno riconosciuti, e ai quali bisogna porre rimedio.
Il testo della dichiarazione è formulato in modo da poter raccogliere l’adesione di persone che abbiano concezioni diverse sia sulla natura della mente sia sull’attitudine presente e futura della scienza a darne conto. Si domanda loro solo di impegnarsi al riconoscimento della realtà della sensibilità - una sensibilità che non sia stata artificialmente privata di ogni implicazione etica - e al rifiuto di un utilizzazione faziosa della scienza a tale proposito. Malgrado la sua semplicità e il suo minimalismo, questo impegno è di grande portata: non c’è nessun criterio che, utilizzato in modo neutro, permetta di mettere in dubbio che un maiale sia cosciente, senza nel contempo mettere in dubbio che un neonato o un essere umano adulto lo siano, cosa che pochi ricercatori si azzarderebbero a fare. Si ha così modo di dislocare l’onere della prova: se gli (altri) esseri umani sono supposti coscienti, allora anche i polli e le pecore devono esserlo, fin tanto che non si portino solide prove del contrario.
È nostra impressione che si siano sottostimate le conseguenze che possono scaturire dall’esame e dalla sottolineatura di questo fatto centrale: gli animali (umani inclusi) sono sensibili. Continuando a lavorare su questi temi, si scoprirà il considerevole potenziale che essi celano. Di fatto, potrebbero portare a far vacillare la «visione del mondo» degli esseri umani, e di conseguenza i loro comportamenti.
<h4 class="intLk">[«La complexité de la conscience animale»->63]</h4>
<p>Par Tom Regan.</p>
<h4 class="intLk">[«Pourquoi et comment étudier la vie mentale des animaux»->143]</h4>
<p>Par David DeGrazia.</p>
<h4 class="intLk">[«La vie mentale des animaux d'après David DeGrazia»->143]</h4>
<p>Par Estiva Reus. Version pdf avec quelques corrections [sur le site de Tahin Party->http://www.tahin-party.org/textes/EeEp186-219.pdf].</p>
<h4 class="intLk">[«Le subjectif est objectif»->227]</h4>
<p>Par David Olivier.</p>
<h4 class="intLk">[«Le cerveau, l'antispécisme et le neurobiologiste»->228]</h4>
<p>Par Sébastien Arsac.</p>
<h4 class="intLk">[«Lectures de pensée animale»->234]</h4>
<p>Par Estiva Reus.</p>
<h4 class="intLk">[«Marian Stamp Dawkins: À la recherche de la conscience animale»->282]</h4>
<p>Par Estiva Reus.</p>
[1] 1. Si vedano sul sito del CIWF le pagine programma e annuncio. Recensione del colloquio di D. Olivier e E. Reus qui.
[3] Lo stesso Darwin (ne L’Origine dell’uomo) descrive minuziosamente le emozioni che si osservano negli animali, affermando non solo che essi sono sensibili al piacere ed al dolore, ma che si possono osservare in loro paura, diffidenza, timidezza, noia, curiosità, desiderio di approvazione, stupore, gusto per le impressioni vive, amore, sentimento del bello. Egli attribuisce loro anche alcune capacità mentali come l’attenzione, la memoria, l’immaginazione l’apprendimento, la razionalità, la capacità di elaborare concetti generali.
[4] Il soggetto che prende una decisione è portatore di un’etica poiché forma - e traduce in atti - un giudizio su ciò che deve esser fatto. Anche se la complessità ed il livello di astrazione con la quale viene condotta la riflessione varia a seconda degli individui, questa constatazione dovrebbe portare a riconsiderare la pertinenza della differenza che viene fatta abitualmente fra agenti morali (normalmente i soli esseri umani o una parte di essi), e semplici pazienti morali (gli altri animali).
[5] Il relativismo è la dottrina secondo la quale bene e male non hanno realtà oggettiva: in etica non c’è verità. I giudizi morali sono il prodotto del contesto sociale o delle preferenze personali. Non esiste un criterio unico ed autonomo che permetta di decidere, fra punti di vista opposti, cosa sia bene fare.
[6] Il solipsismo è la posizione secondo cui esistono solo i miei stati mentali. Gli oggetti, le persone. non hanno un’esistenza indipendente. Sono solo sogni creati dalla mia mente.
[7] L’epifenomenismo è la teoria per cui i fatti mentali sono causati da fatti fisici, ma non hanno alcun effetto sugli avvenimenti fisici. La coscienza è un sottoprodotto inerte degli eventi neuronali. Essa non ha alcun ruolo causale nei nostri comportamenti.
[8] Si possono trovare sul Web diverse versioni di questa storia (vera?).
[9] Per un esposizione più estesa dei problemi sollevati dalla fisica classica, cfr. David Olivier, «Il soggettivo è oggettivo», Cahiers antispécistes, n. 23, dicembre 2003.
[10] Secondo P.S. de Laplace (1749-1827), fisico e matematico francese, «Un’intelligenza che, in un istante dato, conoscesse tutte le forze che animano la natura e la reciproca posizione degli esseri che la compongono e fosse capace di sottoporre ad analisi tali dati, comprenderebbe in una stessa formula sia i movimenti dei corpi più grandi dell’universo che quelli dell’atomo più leggero; niente sarebbe incerto per lei, e l’avvenire, così come il passato, sarebbero presenti ai suoi occhi» (Essai philosophique sur les probabilités, 1814, trad. it. in Opere, a cura di O. Pesenti Cambusano, UTET, 1967).
[11] A ciò bisogna aggiungere i campi, il che non ci sembra modificare la natura del problema.
[12] Certo, la chimica moderna deve molto alla meccanica quantistica, ma ci si sforza di confinare le conseguenze che ne derivano al livello degli oggetti microscopici: alla spiegazione dei legami inter-atomici e dell’energia molecolare. Le molecole stesse raramente sono trattate come oggetti sottoposti a leggi quantistiche, la loro natura quantistica non ha nessun ruolo nella maggior parte delle applicazioni della chimica, fra cui la neurobiologia.
[13] Cit. in Roger G. Newton, The Truth of Science: Physical Theories and Reality, Harvard University Press, Cambridge - Massachussets, 1997, v. http://www.arthurmjackson.com/w2a3.html.
[14] Nel famoso esperimento mentale del gatto di Schroedinger, è la mente umana che opera la misurazione del sistema, rompendo la sua evoluzione quantica determinista e facendolo passare, in modo aleatorio, da uno stato di sovrapposizione quantica «gatto vivo» + «gatto morto» a uno stato semplice: «gatto vivo» oppure «gatto morto». Implicitamente, non viene riconosciuta al gatto stesso la capacità di effettuare la «misurazione» nel senso quantistico. Il motivo resta oscuro: si suppone che il gatto non abbia una mente? o che ne abbia una, ma non del tipo giusto? o che l’esistenza della mente di un gatto è una questione priva di senso?
[15] Un’interpretazione alternativa della meccanica quantistica merita di essere menzionata: la teoria dei mondi molteplici. Essa sostiene che il mondo si evolve continuamente secondo l’equazione di Schroedinger e che non c’è nessuna «riduzione del pacchetto d’onde», il che permette di mantenere un’interpretazione realistica della fisica. Purtroppo si tratta di un ritorno alla fisica laplaceana. La teoria dei mondi molteplici contiene degli elementi di grande interesse per la questione della sensibilità. Tuttavia, come tale, non è più utile della fisica classica.
[16] Permette anche di superare alcune obiezioni alla teoria dell’identità. (La teoria dell’identità sostiene che gli stati e i processi della mente sono identici a quelli del cervello).
[17] Il termine qualia (singolare quale) rinvia all’aspetto fenomenico della nostra vita mentale, quello cui si accede tramite l’introspezione. Viene impiegato per designare la dimensione soggettiva dell’esperienza cosciente, quello che si prova in stati mentali quali il sentire dolore, vedere il blu, sentire odore di caffè, essere in collera, etc.
[18] Il pensiero funzionalista, benché influente, non rappresenta l’insieme della filosofia della mente contemporanea. Al contrario la contestazione del funzionalismo parte soprattutto dai filosofi, appunto perché esso elimina la sensibilità, il vissuto soggettivo.
[19] Non così in un’altra corrente della filosofia che si occupa anch’essa della mente ma non delle sensazioni ed emozioni: quella che cerca di definire la coscienza con dei criteri logico-linguistici, a partire dalle proprietà presentate dalle proposizioni che si riferiscono alla coscienza. Per esempio si dirà che la coscienza è tale che le proposizioni che vi si riferiscono non dipendono dal loro contenuto di verità (la proposizione «Maria pensa che sono le cinque» può essere vera anche se in effetti sono le quattro). Questa corrente, che centra la sua riflessione sulle proprietà verbali, porta alcuni suoi sostenitori ad affermare che gli animali non pensano o non sentono poiché, non avendo linguaggio, non possono avere dei concetti. Al contrario una filosofa funzionalista, Joelle Proust, ha recentemente dedicato alcune opere al tema della mente animale: Comment l’esprit vient aux bètes. Essai sur la représentation, Gallimard, 1997; Les animaux pensent-ils?, Bayard, 2003.
[20] Il dibattito sulla possibilità di creare in futuro degli artefatti coscienti non è qui in esame.
[21] Un algoritmo è una sequenza finita di istruzioni che, partendo da un dato stato iniziale, conducono al corrispondente stato finale. Per esempio, una ricetta di cucina è un algoritmo. Nella fisica classica (laplaceana) la serie delle leggi fisiche costituisce un algoritmo che permette di calcolare lo stato del sistema in un qualunque momento t2, a partire dalla conoscenza del suo stato in t1. Un programma informatico è un algoritmo che descrive la serie ordinata delle tappe che devono essere percorse per raggiungere un obiettivo determinato. Si presenta come una serie di istruzioni di questo tipo: «Se la macchina si trova nello stato E1 e riceve l’input I1, deve passare allo stato E2 e produrre l’output O2».
[22] Il panpsichismo è la teoria secondo la quale la mente è presente ovunque nell’universo. Secondo questa dottrina, o almeno per alcune delle sue varianti, ogni oggetto (i fiumi, i pianeti, gli orologi, le molecole.) è cosciente.
[23] È appunto questa constatazione che ha condotto John Searle, nella famosa dimostrazione della «camera cinese», a rifiutare quegli approcci che assimilano la mente al software e il cervello allo hardware: per il computer, nota Searle, gli oggetti elaborati non sono dei simboli e le regole operative non costituiscono una sintassi. Le operazioni che esso esegue sono percepite come dotate di senso solo dal punto di vista dei soggetti coscienti, che sono esterni al sistema.
[24] Al contrario di ciò che avviene nel funzionalismo, Roger Penrose, in analogia con la comprensione matematica, ha sviluppato degli argomenti che portano a dimostrare che il pensiero non è riducibile ad un algoritmo. Cfr le sue due opere: La mente nuova dell’imperatore, Rizzoli, 1989; Ombre della mente, Rizzoli, 1996.
[25] La «fitness» di un individuo è la sua capacità di trasmettere il suo genotipo alle generazioni successive. Una misura semplice (anche se incompleta) ne è il numero di figli vivi che egli genera.
[26] Michael Ruse et Edward Wilson (1986), «Moral Philosophy as Applied Science», Philosophy, 61, p. 179.
[27] Ibidem, p.180.
[28] Michael Ruse (1993), «Una difesa dell’etica evoluzionista» in Jean-Pierre Changeux (dir.), Fondements naturels de l’éthique, Odile Jacob, Paris, p. 59.
[30] Il risultato di questa inchiesta si trova in Florence Burgat, Les animaux d’élevage ont-il droit au bien-être ?, INRA éditions, Paris, 2001, pp. 105-133.
[31] L’esempio più famoso è la tesi cartesiana dell’animale macchina. Ma le teorie che negano la sensibilità animale si estendono ben al di là. C’è molto da fare per rintracciarle, poiché molte di esse non si presentano come tali. Così, in campo etico, parecchi autori sostengono che il criterio che delimita i pazienti morali non sia la sensibilità, ma una facoltà X (la cultura, il linguaggio, l’individualità, la libertà, la coscienza di sé.), che appartiene solo ad un sottoinsieme degli esseri dotati di sensibilità. Ora, spesso costoro descrivono la facoltà X in modo tale che difficilmente ci si può rappresentare un essere che ne sia sprovvisto se non come un automa.