L’antispecismo non ha niente a che fare con il «rispetto di ogni vita», ma consiste nel rispettare gli interessi degli esseri sensibili, indipendentemente dalla loro specie.
La questione dell’aborto è stata già trattata su queste pagine da Carol Adams, in un articolo sul femminismo e la liberazione animale [1]. Tuttavia, capita ancora che ci venga chiesto, sia da avversari che da sostenitori della libertà di abortire, qual è la nostra posizione in merito. I primi sembrano generalmente sperare, e i secondi temere, che siamo contro l’aborto, probabilmente perché il vegetarismo è spesso associato all’idea di «rispetto di ogni vita» e di ascetismo «morale» (nel senso puritano che in genere si dà a questa parola).
L’idea secondo la quale occorre necessariamente prendere una posizione estrema - e di fatto insostenibile - di «rispetto di ogni vita» nel momento in cui si rispetta quella delle mucche e dei polli che vengono ammazzati per niente, consegue essa stessa da una concezione delle cose profondamente specista. Questo non mi impedirà di prendere sul serio la questione e di sviluppare qualche riflessione.
Prima di affrontare il nesso tra la questione dell’aborto e la liberazione animale, spiegherò la mia posizione personale.
Per esempio, personalmente non rispetto la vita delle piante. Non perché le disprezzi, ma perché non penso che siano sensibili, ovvero che percepiscano ciò che succede loro [2]. Se esse non provano né piacere nel vivere, né sofferenza nell’essere tagliate o sradicate, né dispiacere di dover morire, non trovo ragioni per non farne l’uso che mi conviene, e in particolare per non mangiarle.
Prendo l’esempio delle piante per mostrare la differenza tra rispettare la vita in sé (fenomeno incosciente di sviluppo e riproduzione) e rispettare la vita sensibile, ovvero prendere in considerazione gli interessi degli esseri che hanno degli interessi che devono essere rispettati.
Ora, è praticamente certo che l’embrione umano [3] non è sensibile almeno durante le prime 18 settimane di gravidanza (su un totale di 38 settimane) per via dell’assenza prima e dell’immaturità poi del suo sistema nervoso. Il neonato invece è sensibile; la sensibilità appare dunque ad un certo momento nel corso della seconda metà della gravidanza. Prima, l’essere in questione, che non prova né piacere né dolore, né timori né speranze, non mi sembra moralmente più significativo di un filo d’erba o di un sasso.
Ovviamente si potrebbe rispondere che si tratta di un futuro essere sensibile, che bisogna rispettare la sua vita potenziale; mi si potrebbe chiedere, ad esempio: «E a te sarebbe piaciuto se tua madre avesse abortito?»
Ebbene, l’idea che potrei non esistere mi è forse sgradevole (non fa mai piacere pensare alla propria contingenza), ma immaginarla come conseguenza di un aborto non è più sgradevole che immaginarla come conseguenza della contraccezione, o dell’astinenza dei miei genitori o dall’ipotesi che non si siano incontrati. La sola cosa che il concepimento assegna ad un essere e che prima non esisteva è il patrimonio genetico; ma non vedo in cosa ciò implicherebbe che quell’organismo insensibile, senza storia e senza progetti, che possedeva quel codice genetico particolare fossi io, più di quanto lo sarebbe un embrione che fosse clonato a partire dal mio corpo o un fratello gemello omozigote di cui apprendessi oggi l’esistenza [4].
L’aborto praticato durante le prime 18 settimane dopo la fecondazione, durante le quali l’embrione non è sicuramente sensibile, mi sembra assimilabile ad una semplice contraccezione tardiva. Tuttavia, la decisione di abortire o meno non è di poco conto, perché essa determina l’esistenza di un futuro essere sensibile; ma allo stesso titolo di una contraccezione o di una sterilizzazione o dell’assenza stessa di relazioni sessuali. Penso che oltre al desiderio che si ha oppure no di avere un bambino, in questa decisione occorra tener conto, in particolar modo, da un lato della felicità a cui il bambino può aspirare e dall’altro della sovrappopolazione mondiale. Ma questo è un altro discorso; in ogni caso, poiché in generale non si costringe la gente ad avere bambini, non vedo perché una donna dovrebbe esservi costretta più di un prete che ha scelto il celibato.
Se una donna vuole abortire, penso che abbia il diritto di poterlo fare senza restrizioni, almeno fino a 18 settimane dopo la fecondazione; considerando poi la realtà sociale, penso che occorra fare tutto il possibile perché questo sia facile e gratuito, almeno nei casi in cui il costo dell’operazione costituirebbe un ostacolo [5].
Spesso si oppone agli antiabortisti il semplice argomento della libertà della donna. Questo non può bastare se non si aggiunge appunto che l’embrione non ha degli interessi propri. Senza questa precisazione, si tratta di una petizione di principio priva di sostanza, allo stesso titolo della «libertà di mangiar carne» che ci viene opposta quando mettiamo in luce gli interessi degli animali. E il problema si pone effettivamente nel caso di un aborto in stato avanzato di gravidanza, dal momento che nel corso della seconda metà della gravidanza il feto ha acquisito una sensibilità e, con essa, almeno l’interesse a non soffrire.
L’ideale sarebbe che, in questo caso, si prendano in considerazione in ugual modo gli interessi della madre e quelli del feto. In questo caso, non posso avere una posizione teorica altrettanto netta di quella relativa alla prima metà della gravidanza, quando il feto non è sensibile; senza entrare in particolari, e visto il carattere piuttosto sommario degli interessi del feto, penso comunque che in pratica la cosa migliore da fare sia di lasciare la decisione alla donna convolta [6].
Ciò che potrebbe essere fatto in ogni caso per tutelare gli interessi del feto maturo è aver cura che non soffra durante l’aborto. I paraocchi specisti – assunti tanto dagli antiabortisti che dai loro oppositori – conducono a dispute intorno alla domanda assurda se l’embrione è o no un essere umano. Secondo la risposta data, si dichiarerà che la sua vita è sacra oppure al contrario gli si negherà nel modo più assoluto una rilevanza morale. Gli uni e gli altri tralasciano di prendere in considerazione quello che a mio avviso è l’unico dato importante, ovvero gli interessi effettivi degli esseri che ne hanno, e in special modo l’interesse eventuale dell’embrione a non soffrire. Non sono abbastanza informato sulle tecniche di aborto per poterne dire di più, ma mi sembra logico che tra le preoccupazioni della liberazione animale ci sia quella di pesare sulla stessa bilancia gli interessi dei feti umani maturi, anch’essi animali. (La facilità di accesso ad un aborto precoce permette anche di ridurre il numero di aborti tardivi, che sono tra l’altro più dolorosi per la donna).
La posizione antiabortista si basa spesso sull’attribuzione all’embrione umano di una grande importanza, di una inviolabilità, di un carattere sacro, semplicemente per via della sua appartenenza alla nostra specie. Ciò che gli avversari dell’aborto vogliono proteggere, è la vita umana, indipendentemente dal suo carattere sensibile. Queste posizioni sono all’opposto rispetto alla liberazione animale.
Come afferma Carol Adams [7]:
Lo specismo si esprime al suo più alto grado nella protesta sul destino del concepito umano, laddove il carattere sensibile di altri animali è dichiarato moralmente non significativo perché non sono umani. Certi antiabortisti definiscono la vita moralmente significativa in modo talmente largo che essa ingloba l’ovulo appena fertilizzato, e nello stesso tempo talmente ristretto che animali adulti con un sistema nervoso ben sviluppato ne sono esclusi.
Gli antiabortisti attribuiscono una grande importanza alla fecondazione, che fissa l’identità genetica dell’essere. Così anche i cattolici tradizionalisti, che condannano la contraccezione, non la definiscono un omicidio, diversamente dall’aborto. Sembra che per gli antiabortisti, l’essenza di un essere si trovi nella sua identità genetica. Questa idea per me assurda – perché se il nostro genoma ci determina lo fa allo stesso modo di un qualunque fattore ambientale, e l’«innato» non ha uno statuto diverso dall’«acquisito» - è al centro del razzismo, del sessismo e dello specismo. Certo, non si è necessariamente razzisti, sessisti o specisti se si professa questa idea; ma la liberazione animale può più facilmente farne a meno che adattarvisi.
Non si può negare che ci sono delle persone che si oppongono sia all’aborto che allo sfruttamento animale da parte degli umani. La loro posizione mi sembra tuttavia andar contro corrente rispetto alla logica della liberazione animale.
[1] «Anima, animus, animal», nei CA n°3 (aprile 1992), pp. 11 à 14.
[2] Argomenti in favore della non sensibilità delle piante si trovano in Liberazione animale di Peter Singer (A. Mondadori editore, 1975, 1990), pp. 243-244, e nell’articolo di Yves Bonnardel, «Qualche riflessione in merito alla sensibilità che alcuni attribuiscono alle piante», nei CA n°5 (dicembre 1992), pp. 34 – 38.
[3] L’animale è chiamato embrione tra il suo concepimento e la sua nascita in modo specifico all’inizio della gestazione (i primi tre mesi negli umani), e feto appena comincia a presentare una morfologia generale (testa, arti etc.) riconoscibile.
[4] Del resto, i gemelli omozigoti pongono un problema a coloro che ritengono che l’embrione è un individuo umano fin dalla fecondazione: non può esserci individuo a quello stadio, visto che la divisione da cui nasceranno i gemelli avviene qualche giorno dopo la fecondazione. In potenza, un embrione potrebbe essere diviso all’infinito, se abortire fosse un omicidio per via della semplice potenzialità, allora si tratterebbe di un’infinità di omicidi, il che sembra abbastanza assurdo.
[5] La legge francese autorizza l’aborto solo durante le prime dieci settimane. Questa restrizione è assurda e, aggiunta ad altre, ha delle conseguenze spesso gravi. Altri Paesi consentono un aborto più tardivo.
[6] Si può difendere l’idea che l’essere che non è cosciente della sua esistenza nel tempo può avere un interesse a non soffrire ma non ad essere ucciso. È quanto fa Peter Singer, in Liberazione animale cit., pp. 33-34, e in modo più sviluppato in Etica pratica (Liguori 1989). V. anche in questo numero dei CA l’articolo di Karin Karcher, «Les animaux, la mort, et l’acte de tuer», e, nel numero 4 (luglio 1992), pp. 5-12, Singer, «L’éthique appliquée». La mia posizione è identica nelle conclusioni a quella di Singer, pur partendo da un punto di vista teorico diverso (utilitarismo edonista).
[7] «Anima, animus, animal», p. 13.